martedì 5 maggio 2015

La Maison qui Tue (1932) - Nöel Vindry

La Maison qui Tue è il primo romanzo scritto da Noel Vindry, forse il massimo esponente della Golden Age del romanzo poliziesco francese. L'opera, mai più ripubblicata dopo la prima edizione del 1932, è stata finalmente riproposta in lingua inglese, tradotta da John Pugmire per la sua eccellente casa editrice, Locked Room International, con il titolo The House that Kills. Curiosamente il romanzo è uno dei pochi di Vindry pubblicati anche in Italia: uscì nel 1948 con l'ottimo titolo La villa dei cipressi, edito dalla Società Editoriale Italiana di Milano, con la traduzione, credo assolutamente non integrale, di Jacopo Mannozzi. 
Io non sono uno dei fortunati che ha avuto la possibilità di avere tra le mani l'edizione italiana, oggi rarissima e praticamente introvabile, e ho letto esclusivamente la versione inglese, sulla quale posso essere certo per ciò che riguarda accuratezza e professionalità: la traduzione di Pugmire ben si adatta ad uno stile, quello di Vindry, piuttosto semplice, ma scorrevole e piacevolissimo.
Noel Vindry, oggi praticamente sconosciuto al di fuori dei confini francesi, è in realtà uno dei grandi mystery writers europei degli anni Trenta: tra il 1932 e il 1937 scrisse dodici camere chiuse tra le più eccitanti e virtuosistiche dell'epoca, e non a caso venne definito da Thomas Narcejac "poète du roman problém". Assieme a Pierre Boileau, nel loro saggio dedicato alla narrativa poliziesca, i due fecero riferimento a Vindry sottolineando il suo incredibile virtuosismo e la sua capacità di ideare i puzzle più stupefacenti, a discapito, spesso, di una certa freddezza nella prosa.
Parlando esclusivamente di plot, dunque, in pochi possono rivaleggiare con il francese sul piano dell'ingegnosità: nei suoi romanzi si snodano infatti continue situazioni impossibili, risolte sempre con logica stringente e sublime agilità intellettiva.
Vindry, nato a Lione nel 1896, divenne juge d'instruction dopo il 1915 in un bellissimo paesino della Provenza, lo stesso luogo in cui si muove il suo investigatore, una sorta di alter-ego e pura macchina pensante, Monsieur Allou.
Allou esordisce in questo ottimo romanzo scritto e pubblicato nel 1932, anno eccezionale nella storia del mystery, che contiene ben tre situazioni apparentemente inspiegabili: il primo è un classico delitto di camera chiusa, il secondo un assassinio compiuto di fronte ad una folla di testimoni e nel terzo, solo tentato, la vittima è proprio Allou, colpito da un colpo di pistola nel proprio appartamento chiuso dall'interno.
Vindry mette già parecchia carne al fuoco, e dimostra di conoscere benissimo i classici, da Leroux, che amava moltissimo e riteneva l'emblema degli scrittori polizieschi, a Zangwill: se il secondo delitto è sin troppo arzigogolato e richiede qualche coincidenza di troppo, il primo è risolto con grande astuzia, e rappresenta un'eccellente variazione delle camere chiuse che campeggiano ne Il grande mistero di Bow e ne Il mistero della camera gialla.
Con Vindry possiamo effettivamente notare le differenze, numerose, che intercorrono tra i francesi e gli anglosassoni: qui l'interesse è quasi esclusivamente nel plot, nelle falde magmatiche del rompicapo e nel modus operandi dell'assassino, la cui identità, come spesso accade, è piuttosto semplice da individuare. Non whodunit dunque, ma howdunit
La prima parte, dove si respira un'atmosfera inquietante, è la migliore del romanzo, ma anche la seconda risulta piacevole, perciò non sono troppo d'accordo con Fooz, Bourgeois e Soupart che sostengono, nel loro volume Chambres Closes, Crimes Impossibles (1997), come il ritmo cali vertiginosamente dopo l'attentato all'investigatore.
La Maison qui Tue, dunque, pur non arrivando a quelle memorabili vette tecniche che l'autore raggiungerà in La Bête Hurlante (1934) e in À Travers le Murailles (1936), è un ottimo romanzo d'esordio, assolutamente da non perdere. Chissà che le nostre case editrici, tra una porcheria e l'altra, non decidano anche di offrire della buona letteratura d'intrattenimento.

giovedì 30 aprile 2015

Corollario a Le traduzioni italiane di Agatha Christie - La morte nel villaggio

Qualche tempo fa, la traduttrice Diana Fonticoli è intervenuta qui sul blog, nel post dedicato alle traduzioni italiane di Agatha Christie, affermando l'ipotesi che la sua versione de La morte nel villaggio, pubblicata in un Omnibus ad inizio anni Novanta, sia stata perduta dalla Mondadori, e che per tale motivo, nelle successive ristampe del testo, era sempre stata scelta la traduzione di Giuseppina Taddei, risalente agli anni Trenta.
Oggi, in libreria, ho notato la presenza de La morte nel villaggio nella recentissima edizione Mondadori, quella con le copertine simili alle inglesi. Ebbene, anche qui è stata scelta la versione della Taddei. E siccome tutti gli altri libri della collana hanno come traduzione quella più recente, è chiaro che Diana Fonticoli aveva ragione.
È un peccato.

domenica 26 aprile 2015

The Mystery of 31 New Inn (Una carrozza nella notte, 1905) - Richard Austin Freeman

In questi ultimi mesi, in Italia, sta avvenendo una sorta di grande riscoperta di Richard Austin Freeman, uno dei maggiori scrittori di romanzi polizieschi dell'epoca edoardiana  e tra coloro che, ancora oggi, si leggono con più gusto.
Le sue opere sono state ripubblicate ultimamente da Castelvecchi, in due ottimi volumi, e Mondadori, che ha riscoperto anche un eccellente inedito del 1938.
Nella storia del mystery, Freeman è una figura chiave: inventore della "forma  romanzo" secondo Narcejac, è idealmente una sorta di raccordo tra il poliziesco di fine Ottocento e la Golden Age, tra Conan Doyle e Agatha Christie.
Il racconto di cui parliamo oggi, pubblicato in Italia da Polillo nel 2007, è il primo scritto da Freeman nel 1905 con protagonista il dottor Throndyke, l'investigatore scientifico per eccellenza. L'opera rimase però inedita fino al 1911, quando fu pubblicata sulla rivista Adventure; quell’anno Freeman lo ampliò fino a farlo diventare un romanzo, dal titolo The Mystery of 31, New Inn (1912). Ufficialmente, come ben si conosce, la prima apparizione dell'investigatore risale invece al 1907, con il romanzo The Red Thumb Mark (L'impronta scarlatta 1907).
La versione pubblicata Polillo è quella originale, che, sebbene acerba, mostra le tante abilità che hanno reso grande questo autore: trame intriganti costruite con cura, stile piacevole ma elegante, ritmo spedito e indizi astutamente disseminati nel testo.
La storia, dal punto di vista tematico e contenutistico, si attesta all'interno di una tradizione schiettamente sherlockiana: il dottor Jervis, il narratore, ha il tipico ruolo del dottor Watson, mentre Throndyke è un novello Holmes; la storia, inoltre, ha inizialmente toni da racconto di Conan Doyle. Il dottor Jervis, ormai arrivato a fine giornata lavorativa, viene contattato da tale J. Morgan per visitare il fratello, molto malato, nella propria abitazione. La richiesta è bizzarra perché, secondo le parole dell'uomo, il fratello ha espressamente richiesto di essere visitato da un medico non della zona. Perché tutta questa segretezza? E come mai il cocchiere che accompagna Jervis e il padrone di casa J. Morgan sembrano la stessa persona? 
Nonostante i rimandi a certi classici con protagonista Holmes siano evidenti (vedi L’avventura del pollice dell’ingegnere), la bravura di Freeman permette al racconto di prendere vie nuove e inesplorate. L'autore decide, e questa sarà una sua peculiarità, di intrecciare due storie apparentemente separate, che troveranno alla fine un imprevedibile congiungimento.
Il Dottor Throndyke non è ancora al massimo della forma (non ha ancora la valigetta e i suoi attrezzi) ma mostra già le sue vastissime conoscenze in campo legale, medico, chimico, ma anche letterario e storico, possiede un eccellente potere deduttivo ed è capace di spiegare avvenimenti apparentemente assurdi con grande coerenza e logica. 
Il grande passo in avanti compiuto da Freeman rispetto a Doyle riguarda senza dubbio la costruzione dell'intreccio e l'utilizzo degli indizi. Ce ne sono tanti e alcuni di essi non mancheranno di sorprendere il lettore.

Il racconto si legge in poco più di un'ora, e diverte moltissimo.

venerdì 10 aprile 2015

The John Dickson Carr Companion (James E. Keirans, 2015)

Ci sono gli scrittori di mystery, e poi c'è John Dickson Carr.
James E. Keirans, appassionato studioso, ha appena pubblicato grazie alla casa editrice Ramble House una delle più importanti opere sul Maestro americano. Questo massiccio volume di oltre 400 pagine va a formare una indissolubile coppia con la celebre biografia di Carr, scritta da Douglas Greene nel 1995, John Dickson Carr: The Man who Explained Miracles.
Questo testo di Keirans è essenzialmente da consultazione ed è strutturato alfabeticamente dalla A di Aaronson (bizzarro personaggio che appare nel romanzo And so to Murder) alla Z di Zia Bey (un'americana sui quaranta che muore nel capolavoro Nine-and Death Makes Ten, appena ripubblicato da Mondadori).
L'opera include quasi tutti i personaggi, maggiori, minori e reali (Hitler, Picasso, Monet etc) apparsi o citati nelle opere poliziesche di Carr, con descrizione e caratteristiche; troverete, alfabeticamente, nominati tutti i romanzi, i racconti, i radiodrammi, gli articoli, i saggi, le recensioni, e ancora tutti i luoghi in cui l'autore americano ha condotto i propri lettori (bar, pub, club, stazioni, ristoranti etc). Potrete trovare tutto ciò che concerne gli alcolici (di cui era un appassionato), le automobili, le parole latine, i proverbi, le residenze di Fell e Merrivale, le case di campagna, le citazioni, oltre a tutti i metodi di assassinio, dal colpo di pistola all'avvelenamento.
Qualche tempo fa, lo stesso Keirans aveva pubblicato un breve saggio (mi sembra sulla rivista CADS) in cui trattava di "avvelenamenti e avvelenatori" nel corpus carriano.
Insomma, in questo The John Dickson Carr Companion c'è tutto l'amore possibile per un autore che non smetterà mai di far sognare i propri lettori, e che merita un'opera così. 

mercoledì 1 aprile 2015

Il banchiere assassinato (Augusto De Angelis, 1935)

Una Milano sfuggente, avvolta dalla nebbia e coperta da una fastidiosa umidità apre questo romanzo scritto nel 1935 dal maggiore autore italiano di romanzi polizieschi del ventennio, Augusto De Angelis.
Fine letterato prestato alla narrativa gialla, De Angelis si approccia al genere con grande intelligenza ed acume, dimostrando ampie letture e un non comune eclettismo.
Milano è, sfortunatamente, un semplice sfondo per un romanzo giocato quasi esclusivamente in interni (in particolare quello di casa Aurigi, il luogo del delitto), dove si intrecciano le storie di diversi personaggi appartenenti a differenti ceti sociali (nobili decaduti, arricchiti che hanno distrutto il capitale, proletari). Le vicende ruotano attorno al delitto del banchiere Carlini, ucciso da un colpo di pistola all'interno dell'appartamento di Giannetto Aurigi, e al triangolo amoroso che unisce quest'ultimo, la fidanzata e un giovane ragazzo dal passato difficile.
Ad indagare c'è il Commissario De Vincenzi, qui alla sua prima apparizione, uomo di grande acume ma anche profondamente umano nella sua severità e austerità.
Tra echi genuinamente simenoniani (il prologo nella squallida Questura, con l'enfasi sulla caldaia, ricorda quello di Pietr il Lettone di Simenon), stoccate al modello poliziesco anglosassone (bastano poche pagine all'autore per schernire il metodo investigativo tutto "cellule grigie" dell'investigatore privato Harrington) e qualche dialogo enfatico di troppo, il romanzo si legge con piacere. E questo si deve soprattutto al talento narrativo dell'autore, che sorretto da una prosa quasi esclusivamente dialogica costruisce una vicenda umana e credibile.
Il romanzo somiglia molto a un dramma teatrale (parola che ricorre spesso nel testo), sia per la struttura narrativa che per l'ambientazione. L'intreccio poliziesco non entusiasma, ma è sufficiente per intrattenere e rendere piacevole la lettura. Il movente dell'assassino, tuttavia, convince poco.
Le vicende politiche sono lontane, fino all'ultima pagina, quando un rinvigorito Giannetto Aurigi si presenta dal suo salvatore De Vincenzi (erano vecchi amici e compagni di collegio) per annunciargli la partenza per l'Abissina. A De Vincenzi scappa una lacrima, ma di certo per l'addio dell'amico, non perché toccato da ideali patriottici.
Questo romanzo, pur lontano dalle migliori opere dell'autore, presenta più di un elemento d'interesse, e ci consegna un De Angelis intellettuale di spessore, curiosissimo e aperto. La sua attività di giornalista, diffusore del romanzo poliziesco in Italia e critico letterario (alcune sue pagine sono davvero illuminanti), sono sempre lì a testimoniarlo con forza.

venerdì 20 marzo 2015

Carissimo Maigret, Mon Cher Montalbano - Sky Arte

Questi giorni, Sky Arte trasmette un piacevolissimo dialogo tra Andrea Camilleri, creatore del Commissario Montalbano, e John Simenon, figlio del grande Georges, padre di Maigret. All'interno di casa Camilleri, o almeno così pare, i due affrontano svariati argomenti che caratterizzano l'universo poliziesco: John descrive l'arte del padre, i motivi che lo hanno spinto a smettere di scrivere polar per poi ricominciare, rammenta ricordi d'infanzia e di gioventù, e giudica l'opera del padre alla luce dell'incredibile popolarità contemporanea dei suoi testi, di cui probabilmente Georges sarebbe stupefatto.
Camilleri, sempre straordinariamente lucido e coerente, esalta il proprio amore per l'autore belga, ricorda i primi passi nel mondo della televisione (con la serie televisiva) e del poliziesco, parla di Zingaretti e Gino Cervi, i suoi traduttori e la sua lingua, come si è modificata nel corso del tempo, e di tanto altro.
Nel mezzo di questo delizioso dialogo fuoriescono frasi quantomeno discutibili (Simenon come inventore del "romanzo poliziesco europeo"), che rientrano nella logica con cui Camilleri considera il genere poliziesco (una gabbia, in cui ci si può muovere quasi con difficoltà), logica che io, umilmente, amando l'autore, non condivido, e che anzi ritengo responsabile di una certa decadenza letteraria degli ultimi romanzi. Ma il mio pensiero - quando un romanzo poliziesco diventa inconcludente nel suo intreccio, è inevitabile che si trasformi in un romanzo meno potente e convincente - non conta. Se potete, guardatevi questo piccolo gioiello: dura una mezz'ora, e piacerà sia agli amanti di Simenon che a quelli di Camilleri.

sabato 7 marzo 2015

All But Impossible (1981) a cura di Edward Hoch - La prima lista delle migliori camere chiuse di sempre

Nel 1981 il grande novellista Edward Hoch, uno dei maggiori scrittori di racconti polizieschi del secolo scorso, convocò 17 tra i più importanti studiosi e scrittori di mystery con l'obiettivo, estremamente ambizioso, di stilare la classifica delle migliori locked room mai scritte. I nomi scelti da Hoch erano a dir poco altisonanti: tra questi Frederic Dannay, Howard Haycraft, Douglas G. Greene, Julian Symons, Jack Adrian, Bill Pronzini, Jacques Barzun, Otto Penzler, Francis Nevins e, ovviamente, il grande Robert Adey, che ci ha purtroppo lasciati all'inizio di questo gennaio.
Questi dovevano scegliere un massimo di dieci titoli in ordine di preferenza, e non potevano essere inseriti più di cinque testi per singolo autore.
La scelta di comporre una lista che sia anche una classifica, e non semplicemente una serie di titoli, rende il compito ancora più arduo e non esente da rischi. Ma Hoch lo sapeva, e per questo ha voluto contattare studiosi di grande appeal e conoscenza. Sorprende, e questo lo hanno fatto notare in molti, la mancanza di critici non anglosassoni, e ciò ha come conseguenza principale la quasi totale esclusione di testi francesi, l'unica nazione che qualitativamente può rivaleggiare con l'Inghilterra e gli Stati Uniti.
Da questo sublime conclave sono scaturiti 15 titoli, tutti di autori anglosassoni, con l'esclusione di Gaston Leroux (Il mistero della camera gialla, 1907), al terzo posto.
La classifica, secondo la mia personalissima opinione, ha dei difetti importanti, in primis strutturali (l'idea della classifica), ma anche dovuti ad un certo conflitto di interessi (Frederic Dannay è una delle metà Ellery Queen, Francis Nevins il massimo biografo dei Queen, mentre Greene lo è di Carr). Non mancano quindi i dubbi sulla scelta dei giurati (cosa ci fa Symons che non ha mai particolarmente amato questo tipo di romanzi?) e anche sui titoli. Essi riflettono perfettamente il pensiero e le opinioni di quel periodo, con i suoi pregi e difetti. Vediamoli, giudicandoli sulla base dei parametri e dei criteri contemporanei, alla luce delle nuove classifiche stilate da altri autorevoli studiosi (Lacourbe, Adey stesso, ed altri).
1 The Hollow Man (John Dickson Carr, 1935)

Tradotto in italiano come Le tre bare, è il punto di riferimento fondamentale per chiunque si avvicini alle camere chiuse, ma più in generale al mystery Golden Age. La maggior parte dei critici contemporanei, quando trattano questo romanzo (penso a Michael Cook, nel 2011), riferisce il fatto che sia unanimemente considerato il miglior locked room mystery di sempre. La vittoria in questa classifica fu infatti schiacciante, e il romanzo è di per sé il paradigma del genere, e la sua apoteosi. 
Riflette tutto il genio del più grande mystery writer del Novecento, che modifica un gioco di prestigio osservato nello show Maskelyne Mysteries aggiungendo una variante tratta dal libro Secrets of Houdini
Doveva intitolarsi Vampire Tower e vedere il ritorno di Henri Bencolin dopo 3 anni di assenza, ma le cose andarono diversamente. Carr gettò via ciò che aveva scritto, inserì il Dr. Fell e ne uscì uno dei più mirabolanti, geniali, machiavellici capolavori che questo genere letterario ci abbia mai consegnato. Io credo che le camere chiuse si dividano in due categorie: gli enigmi cervellotici risolti in maniera cervellotica, e quelli ugualmente complessi ma risolti in modo semplice. Questo appartiene alla prima categoria.
È la più grande camera chiusa di sempre? Si può discutere, ma di certo non è il capolavoro assoluto di Carr. E ciò chiarisce per quale motivo nessuno sarà mai come lui.

2 Rim of the Pit (Hake Talbot, 1944)

Da quando è stato riscoperto, nel 1985 da Douglas Greene, il nome di Hake Talbot non ha mai smesso di essere celebrato come geniale costruttore di enigmi, di atmosfere e di camere chiuse. Ci sarebbe molto da parlare su di lui, ma mi limiterò a dire che tutti gli studiosi sono concordi nel ritenerlo un maestro assoluto. Il suo corpus (fatto di due racconti e due romanzi scritti tra il 1940 e il 1948) sfrutta la camera chiusa nei modi più sfaccettati, applicando le enormi conoscenze che l'autore aveva in fatto di magia e prestidigitazione (è stato insegnante teatrale e mago professionista). 
I suoi testi sono un continuo accumulo di impossibilità che non di rado finiscono per creare un surplus di sovrannaturale, facendo sì che il lettore smetta di credere troppo presto alle sue illusioni. A differenza di Carr quindi, Talbot, nonostante ricorra spesso alle atmosfere fantastiche, non è uno scrittore "fantastico". 
Io non sono un suo grande fan, e tantomeno lo sono di Rim of the Pit, un romanzo zoppicante, troppo ambizioso, a tratti asettico, che non rende giustizia all'impalcatura preparata nel plot. Il risultato è altalenante, e secondo me incredibilmente sopravvalutato. Uno dei primi recensori di Talbot fu Carr, che sulle colonne dell'Harper's Magazine nel 1965 scrisse «explanations seem little thin» ma conclude dicendo «don't argue with it, read it».
Imparagonabile al precedente The Hangman's Handyman (1942, Terrore nell'isola), non presente in questa classifica ma molto più riuscito. Le 5 stelle date da Lacourbe nel recente 1001 Chambres Closes ad entrambi i romanzi, e la loro presenza in tutte le classifiche, smentisce categoricamente le mie umili affermazioni.

3 Le Mystère de le chambre jaune (Gaston Leroux, 1907)

Il mistero della camera gialla, unico romanzo francese in lista, compare al terzo posto. È un capolavoro, un testo fondamentale anche se di chiara tradizione zangwilliana. Difficile dire se sia o meno da terzo posto; probabilmente no, perché qualitativamente ci sono moltissimi testi superiori, ma le problematiche delle classifiche sono proprio queste: si privilegia la qualità, l'innovatività, o qualcos'altro?

4 - The Crooked Hinge (John Dickson Carr, 1938)

L'automa, il romanzo che stregò il giovane Robert Bruce Montgomery e lo convinse a scrivere polizieschi sotto lo pseudonimo di Edmund Crispin. Un testo per alcuni versi ambiguo (una soluzione azzardata) ma scritto, concepito e realizzato superbamente. Mescola stregoneria, magia, Titanic e tanto altro in un miscela ancora oggi insuperata. Secondo molti il capolavoro di Carr. Secondo me no, ma vederlo dietro Leroux e Talbot è un insulto.


5 The Judas Window (John Dickson Carr, 1938)

Se The Hollow Man è l'emblema dell'impossibile risolto in modo complesso e tortuoso, The Judas Window rappresenta l'esempio opposto. Ci sono due uomini in una stanza ermeticamente chiusa: uno è vivo ma stordito, l'altro è morto per colpa di una freccia scoccata da una balestra. Ah, quello vivo non è l'assassino.
Semplicemente la più sublime camera chiusa mai scritta, e della stessa opinione sono Douglas Greene e Robert Adey. 
Invidio tutti coloro che non hanno mai letto questo testo, davvero. Disarmante manifestazione di genialità, e di una perfezione narrativa unica. Inspiegabile vederlo al quinto posto. Messaggio per tutti coloro che considerano i testi della Golden Age "semplici puzzle" o roba da cruciverba. Leggete questo, e andrete a prendere i vostri Deaver, Patterson o Nesbo dalla libreria per attizzare un po' di fuoco, ideale con questo freddo.

6 The Big Bow Mystery (Israel Zangwill, 1891)

C'è la sesta piazza per questo romanzo che dal punto di vista dell'enigma è sopraffino, oltre che profondamente in anticipo sui tempi e innovativo. Certo, se parliamo di "letteratura" non ci siamo proprio, ma la tradizione del locked room mystery come conosciuto oggi si deve a questo romanzo, e alla sua geniale soluzione finale.

7 Death From a Top Hat (Clayton Rawson, 1938)

La quintessenza dell'illusionismo puro applicato al mystery: pur non essendo un grande costruttore di atmosfere, nessuno è secondo a Rawson nel creare enigmi cervellotici, in cui si muovono prestigiatori (come l'investigatore, Merlini), scassinatori, medium, lettori del pensiero e giocatori di carte. Questo romanzo è un autentico fuoco pirotecnico dalla prima all'ultima pagina, pieno di trovate geniali, false piste, spiegazioni contorte ma sorprendenti e colpi di scena. Meriterebbe una posizione più alta, perché pochi testi nella storia del poliziesco possono rivaleggiare dal punto di vista tecnico col grande Clayton, non a caso mago e prestigiatore di prim'ordine. 

8 The Chinese Orange Mystery (Ellery Queen, 1934)

Difficile capire la presenza di questo Delitto alla rovescia, uno dei più controversi e ambigui polizieschi della Golden Age. Sia chiaro, per me resta un testo di altissimo livello, con uno degli intrecci più affascinanti che questo genere abbia mai partorito (una stanza dove l'intero arredamento è rovesciato, e dove anche il cadavere ha i propri vestiti completamente alla rovescia). Ma ci sono vari problemi: secondo alcuni non è una camera chiusa tout court, e sicuramente la spiegazione finale appare forzata. Ma soprattutto il romanzo del 1937 The Door Between (La porta chiusa) gli è infinitamente superiore sotto ogni punto di vista, ma nella classifica non appare. Perché?

9 Nine Times Nine (Anthony Boucher, 1940)

Romanzo stupendo: divertente, scorrevolissimo, di rara piacevolezza, e la camera chiusa è eccellente. C'è anche una conferenza sulle camere chiuse che fa la parodia di quella di Carr ne Le tre bare che è davvero una delizia. Ma essere nella top15 mi sembra eccessivo.

10 The Peacock Feather Murders (John Dickson Carr, 1937)

Il mistero delle penne di pavone. Per chi è appassionato di delitti impossibili basta il titolo di questo capolavoro. Il problema di stilare una classifica e inserire il Maestro è proprio questo: o tutto si riduce a una top15 Carr oppure si commetteranno irrimediabilmente degli errori. Vederlo in questa classifica certamente non è un errore.

11 The King is Dead (Ellery Queen, 1952)

La presenza di questo romanzo è ai miei occhi inaccettabile. Incomprensibile davvero, perché l'enigma proposto è nulla più che buono, e il valore letterario complessivo non raggiunge certo le vette scalate dal duo Dannay-Lee. L'unico di questa top15 che toglierei al 100%.

12 Through a Glass Darkly (Helen McCloy, 1950)

È un capolavoro? Assolutamente si. Ipnotico, malefico, ingegnoso e appassionante. È una camera chiusa? Ne dubito. Ma tutti la considerano tale, perciò chino il capo.

13 He Wouldn't Kill Patience (John Dickson Carr, 1944)

Ancora Carr, e ancora un capolavoro. Ma rimangono fuori The Plague Court Murders, The Problem of the Green Capsule, e soprattutto (sacrilegio!) He Who Whispers

14 Too Many Magicians (Randall Garrett, 1967)
14 Invisible Green (John Sladek, 1977)

Finiscono a pari merito questi due romanzi così diversi ma così ugualmente brillanti e geniali. ll primo è talmente complesso, bizzarro e divertente che davvero mi spiacerebbe farne una recensione rapida (nelle sue caratteristiche è unico). Del secondo abbiamo parlato poco tempo fa, scritto da John Sladek nel 1977: parodico, auto-referenziale, pieno di citazioni, sprizza ingegnosità da ogni pagina. E in una top15, o questo o Black Aura (1974) non possono mancare.

Questa lista può far storcere il naso, soddisfare o no. Certamente la mancata presenza di gente come Vindry, Boileau, Boca o Lanteaume è imperdonabile, e lo stesso vale per Leo Bruce (A Case for Three Detectives, 1936), Alan Green (What a Body!, 1949),  Derek Smith (Whistle Up the Devil, 1953) e Alan Thomas (The Death of Laurence Vining, 1929).
I 15 romanzi in classifica sono stati tutti tradotti in Italia, anche se il romanzo di Rawson circola in una versione raccapricciante per quanto tagliata.
Che siate soddisfatti o meno, vi auguro buon divertimento col più splendido gioco del mondo!