lunedì 2 marzo 2015

By an Unknown Hand (1972) - John Sladek

John Sladek è stato forse l'ultimo grande maestro del locked room mystery in lingua anglosassone. Nato nel 1937 nell'Iowa, fu prima di tutto un noto scrittore di fantascienza con lo pseudonimo di Thomas M. Disch, e si legò al movimento New Wave. Già da questo si possono intuire le caratteristiche dello Sladek scrittore: bizzarro, visionario e geniale. Uno dei suoi racconti più famosi è Alien Territory (1968), «un dichiarato esperimento new wave di combinazione linguistica, dove il lettore può scegliere tra trentasei frammenti di cinque righe ciascuno, e posizionarli per la lettura nel modo a lui più gradito» (Luca Conti). 
La sua conversione al poliziesco avvenne nel 1972. Da acuto lettore il modello non poteva che essere quello del grande John Dickson Carr, con il quale condivideva le origini americane e il lungo tempo passato in Inghilterra, oltre alla passione per l'incongruo, il fantastico e l'apparentemente irrazionale. Nel 1972 appunto, il Times bandì un concorso per il miglior racconto poliziesco inedito, The Times Detective Story Competition, e chiese ad Agatha Christie di presiedere alla giuria. 
Sladek vinse, anzi stravinse, meritandosi il giudizio entusiasta della Regina proprio con questo By an Unknown Hand, un breve ma geniale racconto in cui lo scrittore americano fa esordire il suo investigatore seriale, Thackeray Phin, il quale trova i casi su cui lavorare mediante annunci pubblicitari sui quotidiani e sfidando i lettori a sottoporgli i problemi più assurdi e irrazionali. Nutritosi sino al midollo dei grandi della Golden Age (Daly King, Van Dine, Queen, Carr, Rawson), Sladek inscena una camera chiusa straordinariamente semplice, e per questo estremamente intrigante: un bizzarro artista entra nel proprio appartamento tenuto sotto sorveglianza da Phin stesso, ma quando vi si accede poco tempo dopo l'uomo è stato ucciso, strangolato. Ma la stanza è impenetrabile, non ci sono finestre né altre porte tranne quella d'ingresso, continuamente tenuta sotto osservazione dall'investigatore. La spiegazione (peccato per un indizio astutissimo che poteva essere sfruttato leggermente meglio) è davvero superba nella sua semplicità. Sladek scrive meravigliosamente, il carattere autoreferenziale del racconto, pieno di citazioni e rimandi letterari, rende la lettura ancora più gustosa e piacevole:
«A man is killed inside a locked, watched room, he thought, adding a mental groan. The killer vanishes. The sleuth gives up and commits dishonourable suicide...or else is arrested for the crime. Sherlock Holmes wasn't going to be any help at all. Phil hurried home to read some locked-room mysteries. If Dr. Fell could not cure this devil case, then perhaps Father Brown could exorcize it». Splendido.

L'americano scriverà un'altra brevissima ma altrettanto frizzante camera chiusa (The Locked Room, 1972) e due romanzi che lo consegneranno alla storia di questo genere letterario (Black Aura, 1974 e Invisible Green, 1977). Se i due romanzi sono stati tradotti in Italia - ma andrebbero ristampati - questi due racconti non hanno avuto la stessa fortuna. Ed è un peccato, perché rappresentano alcuni tra i più felici prodotti della tarda Golden Age. 

martedì 17 febbraio 2015

The Innocence of Father Brown (Il candore di Padre Brown, 1911) - G.K. Chesterton

The Innocence of Father Brown, tradotto in Italia da Morganti nel volume Il candore di Padre Brown, raccoglie le prime avventure del prete-detective ideato da Chesterton.
Frederic Dannay, una delle metà di Ellery Queen, definì questa raccolta «a miracle book», e con buona ragione, perché questo volume contiene alcuni tra i più geniali racconti del mistero mai pubblicati, e possiede un livello qualitativo pressoché insuperabile.
Alcuni racconti appaiono di straordinaria profondità, molti affondano le proprie radici nella teologia, ma tutti hanno un denominatore comune, quell'elemento che ogni opera di «fiction» dovrebbe possedere: il genio, il virtuosismo, la sorpresa. Queste brevi opere sono trionfi di immaginazione, di plotting e di abilità tecnica, piene di indizi sottili e astuti, scritte magistralmente in un inglese complesso, ricchissimo dal punto di vista lessicale, molto difficile da tradurre - diffidate di ogni traduzione che non sia quella di Morganti, perché le pagine rischiano di apparire pesanti se non adeguatamente interpretate.

The Blue Cross (La croce di zaffiri)

Questo primo racconto è già l'emblema del paradosso chestertoniano, in cui l'autore accumula una serie di avvenimenti del tutto assurdi e sconclusionati, che però alla fine troveranno una logica spiegazione.
Il protagonista non è Padre Brown, bensì il capo della polizia francese Valentin, il più grande investigatore del mondo - ma non è una macchina pensante, dice Chesterton, perché le macchine non pensano, riferendosi al professor Van Dusen di Futrelle. Valentin è in Inghilterra sulle tracce del più temibile ladro esistente, Flambeau, una sorta di miscuglio tra Fantômas, Lupin e Diabolik.
Magnifico sense of humor, concisione narrativa e descrizione dei personaggi: meraviglioso.

The Secret Garden (Il giardino chiuso)

Roland Lacourbe, non di certo un fan sfegatato di Chesterton, ha definito questo racconto uno dei più straordinari della storia della narrativa poliziesca. Difficile non emozionarsi di fronte a un tale capolavoro, indiscutibilmente il più geniale Chesterton di sempre, che fonde mirabilmente un'atmosfera da incubo a un intreccio di rara vertigine tecnica. Il cadavere di un uomo senza testa viene trovato all'interno del giardino di casa Valentin, durante un ricevimento. Il giardino è circondato da altissime mura, e non esistono vie d'uscita. 
L'apoteosi del delitto impossibile, che vanta, a mio modo di vedere, una delle più sublimi soluzioni finali mai ideate per una camera chiusa. Ambiguo, complesso, machiavellico e meccanicamente perfetto: forse la più grande short-story contenente una camera chiusa di sempre.
Incalcolabile l'influenza che ebbe su John Dickson Carr e Agatha Christie.

The Queer Feet (Gli strani passi)

«Why on heart should a man run in order to walk? Or again, why should he walk in order to run?»
Un capolavoro di satira sociale e politica, ambientato in un sontuoso hotel-ristorante di Londra, in cui Flambeau orchestra ad alcuni bizzarri personaggi un furto sbalorditivo.
Basato su un paradosso formale, contiene un enigma sopraffino e una spiegazione che lascia a bocca aperta: forse per questo è il più famoso e antologizzato racconto di Chesterton.

The Flying Stars (Le stelle volanti)

Ambientato in una deliziosa villa della campagna inglese durante le festività natalizie, questo racconto celebra il surrealismo chestertoniano attraverso una galleria di personaggi sfaccettati ed eccentrici, che si trovano manovrati dalla diabolica mente di Flambeau, qui alla sua ultima avventura da criminale (Padre Brown lo redimerà e ne diventerà il miglior amico).
«A delightful and heart-warming comedy» lo ha ben definito Nick Fuller, che mostra tutta la gioia di vivere dello scrittore inglese. Dopo un prologo inusuale, il racconto si muove con meravigliosa sinuosità ritmica sino al gran finale. Il trucco ideato da Flambeau è, al solito, geniale, ma anche Padre Brown, che regge col padrone di casa un divertente dialogo sul socialismo, appare in forma smagliante.

The Invisible Man (L'uomo invisibile)

Chi è l'Uomo Invisibile? Chi è colui che può girare per la città, entrare in una casa, lasciare delle impronte, uccidere e uscire sotto gli occhi di decine di testimoni senza essere visto?
L'apice della logica del surreale, un racconto sperimentale e giustamente celebre, tra rimandi a Wells  e situazioni ai limiti del fantastico, che contiene la soluzione più audace e metafisica uscita dalla penna di Chesterton.
Fondamentale per tutti coloro che sono venuti dopo di lui, ma difficile da superare. Atmosfera torbida e inquietante, personaggi complessi, un messaggio sulla vita e sull'uomo di portata universale. Un gioiello della letteratura del Novecento.

The Wrong Shape (La forma sbagliata)

In una suggestiva e grottesca abitazione a forma di T, un poeta Bohémien dedito all'oppio e appassionato di Oriente, viene assassinato nella propria stanza ermeticamente chiusa dall'interno con un maligno pugnale di foggia orientale.
Camera chiusa superba, di chiara ispirazione zangwilliana, contenuta nel più inquietante e diabolico racconto dell'intero volume, intriso di morte, paganesimo, magia nera e occulto.
Pagine dal forte contenuto religioso, scosse da un clima ambiguo e vividissimo. 
Dal punto di vista dell'evocazione di un'atmosfera è insuperabile, e in generale uno dei miei racconti preferiti di Chesterton.

The Honour of Israel Gow (L'onore di Israel Gow)

Padre Brown si reca in Scozia, dove l'amico Flambeau, ora divenuto detective privato, e un funzionario di polizia, stanno indagando sulla morte di un Conte di uno sperduto castello, un uomo bizzarro, che nessuno, tranne il suo tuttofare Israel ha mai visto uscire di casa.
Basandosi sul ritrovamento di alcuni oggetto che non hanno alcun legame apparente tra loro, un Padre Brown insolitamente infastidito troverà la soluzione del mistero.
L'atmosfera creata da Chesterton è, al solito, magnifica, e alcune situazioni - il disseppellimento di un cadavere - sono da antologia, ma la soluzione spezza eccessivamente il pathos che si era venuto a creare. Spiegazione brillante, certo, ma ha il demerito di indebolire il maligno clima della storia.

The Sins of Prince Saradine (I peccati del principe Saradine)

Le selvagge paludi del Norfolk accolgono questa insolita avventura di Padre Brown e Flambeau, in visita a un principe di origini italiane dal passato fosco e burrascoso. L'iniziale aria malinconica e trasognante cede il passo all'inquietudine, fino a che un duello non ribalterà completamente l'assunto iniziale.
Tra bizzarrie, malvagità e vendette, Chesterton non si dimentica di inserire indizi perfetti e subdoli, per un risultato affascinante e a sprazzi sconvolgente.

The Hammer of God (Il martello di Dio)

Dopo The Secret Garden forse il più geniale, e giustamente famoso, delitto impossibile di Chesterton, con una soluzione di una semplicità disarmante, che sarà di insegnamento per Carr, Michael Innes e tanti altri.
Tutto si basa ancora una volta su un paradosso: perché un martello di piccolissime dimensioni viene utilizzato per uccidere un uomo? E come è possibile che questo piccolissimo martello abbia sfondato il cranio di una persona che oltretutto indossava un copricapo di ferro?
Denso di significati simbolici, ribalta un precetto religioso (Dio si serve delle cose più piccole per ottenere le cose più grandi) ed è semplicemente spettacolare.
Nei mesi scorsi, in Giappone, è avvenuta una situazione pressoché identica: per fortuna la sfortunata vittima non è morta.

The Eye of Apollo (L'occhio di Apollo)

Una ragazza cade nella tromba dell'ascensore. Nessuno può averla uccisa, ma non è un incidente, né un suicidio.
Ambientato in uno dei più moderni palazzi di Londra, contiene un altro delitto impossibile superbamente ideato, una letterale applicazione della massima «pride comes before a fall». 
Come in molti Golden Age mysteries - The Dain Curse (1929) di Hammett, Nine Times Nine (1940) di Bocuher, The Other Side (1940) di Talbot - c'è un bizzarro esponente di una setta religiosa tra i personaggi principali, in questo caso un seguace del dio Sole.
Un altro capolavoro, a cui deve molto Roland Knox per il suo bellissimo Solved by Inspection (1925).

The Sign of the Broken Sword (L'insegna della sciabola spezzata)

«Where is the best place to hide a tree?»
Definito da Nick Fuller «Chesterton's masterpiece», è un racconto di estrema profondità psicologica e umana, impossibile da ricondurre, per le sue tante sfaccettature, ad un semplice racconto poliziesco. Perché un uomo saggissimo agisce in modo sconsiderato mentre un uomo estremamente buono agisce da malvagio?
Strutturalmente inconsueto, complesso in apparenza, ma in fondo lineare e semplicissimo: l'indizio alla base, presente sin dal titolo, è puro genio. Amatissimo da Borges.

The Three Tools of Death (I tre strumenti di morte)

Forse il racconto più debole della raccolta, che sarà però di profonda ispirazione per Carr nel suo Four False Weapons (1937), è definito da Nick Fuller «a neat parody of the detective story». La storia è come sempre intrigante, e anche la soluzione (che ribalta la prospettiva iniziale), è convincente, ma nel complesso appare troppo confusionario e dispersivo per gli standard dell'autore.  Un autore unico e inimitabile.




venerdì 6 febbraio 2015

The French Powder Mystery (Sorpresa a mezzogiorno, 1930) - Ellery Queen

Il primo periodo queeniano, individuabile tra il 1929, anno d'esordio, e il 1936 circa, è oggi il meno considerato nell'intera produzione firmata dai due cugini americani Frederic Dannay e Manfred B. Lee. Questo è dovuto principalmente al poco valore conferito dalla critica contemporanea al whodunit puro, parola che normalmente vuol significare poco, ma che per il primo Ellery Queen è piuttosto calzante. Per chi scrive, invece, siamo alle vette della storia del romanzo poliziesco.
La prima produzione con protagonista il giovane detective newyorkese, che affianca nelle indagini il padre Richard Queen, ispettore di polizia, è di schietta tradizione vandiniana: ambienti altolocati, personaggi appartenenti all'alta borghesia, criminali metodici e cervellotici, trame artificiosamente ricreate come in laboratorio, complesse e bizzarre ma strutturalmente impeccabili. Dannay e Lee seguono inizialmente la scia di Van Dine come tanti altri loro contemporanei (Anthony Abbott, Stuart Palmer, Rex Stout, Charles D. King etc) per svariati motivi, tra cui quelli economici: in un momento drammatico della storia americana, la Grande Depressione, scrivere polizieschi di successo era un modo eccellente per superare la crisi, e nessuno vendeva quanto il grande S.S. Van Dine.
Così, dopo un esordio convincente ma acerbo (The Roman Hat Mystery, 1929), Queen pubblica un romanzo che è una delle espressioni più pure e perfette del "vandinismo", The French Powder Mystery

Nei grandi magazzini French, a New York, ogni martedì mattina a mezzogiorno si svolge una particolare esibizione nella vetrina al piano terra, in cui una modella illustra le caratteristiche dei mobili disegnati dall'artista francese Paul Lavery. Che sorpresa, dunque, quando un giorno, all'interno del letto pieghevole viene ritrovato il cadavere della signora French, uccisa da due colpi di pistola al cuore.
Titolo ambiguo, ambientazione metropolitana inusuale, predilezione per le scene in interni e sfida al lettore (con tutti gli indizi forniti per risolvere l'enigma) sono le caratteristiche dei romanzi del primo periodo queeniano, che con questo testo prende forma nitida e precisa. Gli autori costruiscono un meccanismo estremamente elaborato ma non eccessivamente tortuoso o difficile da seguire; i grandi magazzini, con i suoi lavoratori e il frenetico via-vai, rappresentano, come ha scritto Francis Nevins, quasi un personaggio unico, funzionale alla trama ma ottimamente armonizzato. La caratterizzazione dei personaggi, infatti, è praticamente assente, le descrizioni sono ridotte ai minimi termini, ma questo non deve assolutamente far pensare ad una non-letterarietà. 
Benché in alcuni casi Queen rischi di incappare in quella che Boncompagni ha definito "ipertrofia stilistica" (dovuta, spesso, al non eccellente rapporto che intercorso tra i due cugini), la prosa di Dannay e Lee è sempre di alta qualità: pur mancando una tensione narrativa che non sia esclusivamente di carattere intellettuale, il testo scorre via con estrema piacevolezza, perché i due cugini, pur giovani e acerbi, padroneggiano la lingua e la materia con sapienza. Con The French Powder Mystery, Queen da una parte smorza gli eccessi vandiniani (gli artifici stilistici, la magniloquenza della prosa, le citazioni colte del detective), dall'altra conserva e conduce al massimo livello i principi tecnico-strutturali del creatore di Philo Vance, ovvero il metodo investigativo (per eliminazione) e la sottigliezza dei ragionamenti.
Anche qui, come in molti Van Dine prima maniera, si susseguono quasi solamente interrogatori, domande, risposte, perquisizioni e ritrovamenti, ma la struttura narrativa è ai limiti della perfezione: Ellery si muove attraverso deduzioni sempre più sorprendenti ma nello stesso tempo sempre più logiche, stringenti e inappuntabili. 
Le ultime 35-40 pagine, in cui il giovane riprende le fila della trama ripercorrendo tutti i bizzarri eventi, conferendogli infine un senso preciso, sono controversi: se Anthony Boucher, meravigliato dalla perfezione tecnica della spiegazione e dalla brillantezza dei ragionamenti, sostiene che siano tra le pagine più ammirevoli della storia della narrativa poliziesca, Mike Grost ne evidenzia invece la sostanziale inutilità, perché se si esclude il nome dell'assassino, esse non aggiungono alcuna nuova deduzione a quelle già esposte nei paragrafi precedenti. La verità sta probabilmente nel mezzo: la fitta spiegazione di Ellery è troppo lunga, ma al tempo stesso è una illuminante manifestazione di logica deduttiva. 
Interessanti sono anche i riferimenti all'Art Déco: la mobilia allestita da Paul Lavery nei magazzini French è definita "modernist" dagli autori, ma  non sembrano esserci dubbi a riguardo. Come ha scritto Mike Grost, Queen descrive accuratamente il modo in cui questo tipo di corrente artistica, sia dal punto di vista estetico che sociologico, è percepita dai contemporanei, dimostrando ancora di più quanto anche questi primi romanzi, nonostante l'intellettualismo imperante, rappresentino una testimonianza fondamentale per comprendere gli Stati Uniti degli anni Trenta.
Un grande romanzo, scritto da coloro che rappresentano in tutto e per tutto "la vera detective story americana".

lunedì 2 febbraio 2015

Pietr-le-Letton (Pietr il Lettone, 1931) - Georges Simenon

Georges Simenon, belga, è stato uno dei grandi scrittori del Novecento. La sua fortuna è dovuta anche e soprattutto ai romanzi con protagonista il Commissario Maigret, tra i più amati personaggi della letteratura del secolo scorso.
Questi romanzi, va subito detto, non hanno quasi nulla in comune con il mystery dell'epoca, soprattutto quello francese, in cui operano geniali orditori di enigmi come Nöel Vindry, Pierre Very o Gaston Boca. Simenon, soprattutto nel primo periodo, non ha alcun interesse nel costruire trame interessanti, e scrive quasi esclusivamente per motivi economici. Lo si nota perfettamente dall'incredibile mole di testi pubblicati nel giro di pochissimo tempo (10 romanzi nel solo 1931), e dalla loro brevità.
In breve, le opere di Simenon con Maigret, pur solcando il filone della detective story, sono lontanissime dal mystery: appaiono invece piccoli tasselli di una grandiosa Commedia Umana, fondamentali per comprendere l'evoluzione di Parigi e della terra di Francia dai primi anni Trenta sino agli anni Settanta.
Il ciclo iniziale, che si snoda dal 1931 al 1934, è più complesso a livello di intrecci, ma nello stesso tempo più confusionario, acerbo e meno poetico. Il secondo ciclo, invece, che corrisponde al periodo 1940-1972, vede romanzi più lirici, approfonditi psicologicamente, nostalgici e malinconici, spesso ambientati nei soli dintorni parigini.
Questo Pietr-le-Letton, scritto nell'inverno del 1929 e pubblicato da Fayard nel 1931, è il testo d'esordio con protagonista Maigret, ed è piuttosto emblematico, perché mette in luce le problematiche del romanzo poliziesco del periodo.
In questo romanzo Simenon rimane a metà tra il romanzo d'avventura e hard-boiled, con Maigret che si muove in modo caotico tra i meandri della città, cercando di risolvere un caso tortuoso e complicato nell'accezione più negativa del termine. I caratteri del commissario appaiono ancora sin troppo stereotipati: un uomo fatto di granito, implacabile e dallo sguardo di ghiaccio, sin troppo indifferente nei confronti del mondo, sul quale getta uno sguardo disincantato e a tratti cinico.
Dopo un prologo vivido e affascinante, avvolto da un'atmosfera di grande inquietudine, tra appostamenti durissimi sotto la pioggia e squallidi bar, il romanzo inizia piano piano a perdere d'interesse, penalizzato dalla ricerca di un'azione che non pare essere nelle corde dell'autore. Lentamente si dispiega il tema del doppio, Maigret viene ferito, ma alla fine il mistero (se di mistero si può parlare) sarà risolto.
Simenon non è ancora Simenon, e il tentativo di avvicinarsi alle atmosfere e ai moduli dell'hard-boiled è deleterio: disordinato, lentissimo e per larghi tratti di una pesantezza oggi insostenibile.

sabato 24 gennaio 2015

He Arrived at Dusk (1933, La rocca maledetta) - Ruby C. Ashby

Ruby C. Ashby, originaria dello Yorkshire, è una scrittrice di indubbio fascino, anche se oggi quasi del tutto dimenticata. Colpevolmente, perché il suo ruolo nell'evoluzione del mystery è tutt'altro che secondario.
Dotata di grande cultura e raffinatezza, ha all'attivo otto romanzi polizieschi, scritti in piena Golden Age, tra il 1926 e il 1934. Nelle sue pagine, mystery e gotico si mescolano con mano estremamente sapiente, spesso sovrapponendosi: la Ashby ricorre con frequenza a tutti i tipici caratteri della letteratura dell’orrore, tra dimore solitarie e inquietanti, notti tempestose e lande desolate, fosche leggende e rovine pagane, in cui spesso si materializzano delitti “per magia”, come quello che campeggia nel suo romanzo più famoso, He Arrived at Dusk (1933), all’interno del quale l’autrice descrive la strana leggenda del fantasma di un sanguinario centurione romano che infesta un antico torrione in rovina che nessuno, ovviamente, ha più voglia di visitare.
Appena pubblicato e riscoperto in Italia da Polillo, che lo ha proposto con il titolo La rocca maledetta, questo romanzo colpisce per maturità stilistica, abilità nel costruire un solido intreccio, capacità nel presentare personaggi sfaccettati e interessanti, ricreando un clima meravigliosamente evocativo. 

L'opera è divisa in tre distinte parti, narrate da tre personaggi differenti: nella prima, decisamente la più riuscita, William Mertoun racconta della propria incredibile esperienza accadutagli nella vecchia dimora del colonnello Barr, che lo aveva chiamato per catalogare la propria sterminata biblioteca. In queste sperdute, gelide e nebbiose lande del Northumberland infatti, si muove un misterioso fantasma disposto a tutto pur di sterminare la famiglia Barr, e sembra riuscirci. La seconda parte è invece raccontata dal giovane Hamlet: scritta sotto forma di diario di bordo, intreccia la sezione precedente, chiarendo alcuni punti e portando la storia alla sua fase successiva. Nella terza, alla fine, l'enigma verrà sciolto, non senza qualche pagina di troppo.

Contemporaneamente a Carr e ben prima di Talbot, la Ashby mostra le affinità tra gotico e mystery, ne sonda le potenzialità e i limiti, giungendo ad un risultato mirabile: l'atmosfera che si respira sin dalla prima pagina è eccezionalmente vivida e, pur rinunciando quasi del tutto all'elemento violento, la scrittrice dona al lettore più di un brivido. La storia è ben architettata e sviluppata con astuzia, non mancano alcuni indizi interessanti e una palpabile tensione narrativa. 
Parlare di misdirection è forse eccessivo (l'identità dell'assassino non è così sorprendente), ed alcune forzature nella soluzione vengono alla luce, ma non incidono molto in un romanzo che, tra venature romantiche, gotiche e detection (pur mancando una vera figura investigativa), appare un gioiello. Un piccolo capolavoro lo ha definito J.F. Norris su mysteryfile, che anticipa di molto Rebecca della Du Maurier per questo sapiente utilizzo di un narratore spaventato da eventi apparentemente illogici e per questo a volte incapace di interpretare le cose nel modo corretto. 
La Ashby scrive divinamente, e i suoi scritti sono tanto vivi e affascinanti quanto sottovalutati, come quelli di tutti coloro che sono difficili da collocare e categorizzare. E nella grande Golden Age, di questi autori ce ne sono tantissimi. Poco sangue, tanta classe.

domenica 11 gennaio 2015

Into Thin Air (Svanito nel nulla, 1928) - Horatio Winslow & Leslie Quirk

Se nella letteratura americana di fine Ottocento e inizio Novecento si possono individuare alcuni romanzi che lasciano presagire il legame tra impossibilità, illusionismo e poliziesco, pensiamo a Miss Hurd: An Enigma (1894) di Anne K. Green, in cui una donna svanisce in circostanze inspiegabili, nessuno ha mostrato il legame magia-romanzo prima, e con maggiore insistenza, di Horatio Winslow e Leslie Quirk, che nel 1928 hanno dato alle stampe il leggendario Into Thin Air. 
Del tutto dimenticato dalla critica, questo romanzo, frutto di una collaborazione estemporanea, rappresenta un punto di svolta e di collegamento importanti nella storia del mystery: un’opera atipica, inusuale e perciò sorprendente. Per anni conosciuta ed apprezzata esclusivamente nel ristretto campo degli appassionati di locked room mystery, l’opera di Winslow e Quirk attinge ad una quantità di modelli eccezionalmente vasta, ha punti di contatto con la detection classica, con l’hard-boiled e con la letteratura fantastica, e finirà con l’essere un testo di riferimento per molti scrittori, su tutti Hake Talbot. La storia è narrata in prima persona dal professor Nollins, studioso di criminologia e allievo del Dr. Klotz.
L’intreccio è fin troppo complesso per essere riassunto, e ruota attorno a due figure tipiche dell’immaginario: da una parte un assassino imprendibile, chiamato “Lo spettro di Salem” per le sue sovrumane abilità nello sfuggire alla polizia; dall’altra la sua nemesi, il Dr. Klotz, criminologo, uno dei più bizzarri, assurdi ed eccentrici investigatori della storia della narrativa poliziesca. Klotz è un essere dominante, di rara arroganza, spavaldo nei confronti di chiunque si trovi di fronte, che ama esprimere la propria infinita erudizione nei modi più offensivi e oltraggiosi. Capo del dipartimento di criminologia all’Università del Wisconsin, Klotz è tutt’altro che un gentleman: il suo ego fa sì che ami smascherare ciarlatani, medium, maghi da strapazzo o spiritisti, sempre concludendo il tutto con un atteggiamento di sfrontata superiorità. 
Dopo numerosi tentativi falliti finalmente Klotz riesce a catturare “lo spettro”, che tuttavia, una volta rinchiuso in prigione, riesce nuovamente a fuggire tramite modalità del tutto sconosciute, avvalorando l’ipotesi che sia dotato di poteri sovrannaturali. Poco tempo dopo però, l’uomo trova la morte in un terribile disastro ferroviario e, dopo il riconoscimento del corpo, viene sepolto nel cimitero di Blenheim. 
Gli avvenimenti prendono una nuova e inaspettata piega quando, nel corso di un esperimento di spiritismo, Klotz riceve un bizzarro messaggio dello “spettro” che gli ordina di tornare immediatamente a casa. Lì, la domestica lo informa di aver da poco sorpreso un giovane con le stesse fattezze dello “spettro”, dall’aspetto satanico, che altro non faceva se non emettere i belati di una capra, fino a quando non è scomparso nel nulla sotto i suoi occhi, lasciando solo un forte odore di zolfo. Klotz, per una volta, sembra in difficoltà: scopre che uno dei suoi gioielli, che la mattina stessa era sicuro di aver visto riposti nel cassetto, è scomparso. Così decide di esumare la salma del criminale: la bara viene trovata sigillata e il cadavere, di certo quello dello “spettro”, è al suo posto, ma indossa inspiegabilmente l’anello rubato. 
Gli eventi che si susseguono a partire da questo momento sono quanto di più ambizioso un autore di mystery abbia mai tentato in un solo romanzo: sedute spiritiche, apparizioni e sparizioni da luoghi sorvegliati da parte di un imprendibile fantasma, fluenti digressioni sull’illusionismo, la storia della magia e le teorie di Mrs. Blavatsky, fino ad un delitto di camera chiusa che nessuno può avere commesso.

L'intera storia, che risente della recente e improvvisa scomparsa di Houdini, avvenuta due anni prima, è una continua serie di ribaltamenti e situazioni al limite del reale,  che rendono il romanzo un ibrido stilistico e narrativo di impossibile catalogazione. Ci sono almeno due magistrali colpi di teatro, uno di questi riguarda il complice dell'assassino, che mostrano la bravura degli autori nel rielaborare anche trovate già esistenti (Agatha Christie) risultando ugualmente sorprendenti. 
Tralasciando il fatto che dal punto di vista tecnico gli autori trattengono svariati indizi, il romanzo offre molti spunti di interesse. Innanzitutto la presenza di un intero capitolo in cui il prestigiatore The Great Galeoto, da navigato conferenziere, elenca le affinità tra i lettori di romanzi polizieschi e gli spettatori di uno spettacolo di magia: da una parte troviamo i creduloni, disposti a credere a qualunque cosa sono convinti di vedere, mentre dall’altra ci sono i solutori di enigmi, categoria che comprende gli adulti ignoranti, i sospettosi e gli spiriti inquieti. Le posizioni espresse dal mago sono sorprendenti per i tempi in cui l’opera è stata concepita: egli afferma infatti che l’intera “partita” sia «una competizione di intelligenza tra gli scrittori, i criminali e i maghi da un lato, e i lettori, i detective e gli spettatori dall’altro». Come si può notare, è la medesima affermazione che farà Narcejac circa cinquanta anni dopo nella sua opera sul poliziesco: lo scrittore che gioca in compagnia del criminale contro il lettore. E ancora «io, il mago, impiego tecniche di depistaggio proprio come lo scrittore di gialli, ma gli indizi sono sempre visibili per chi ha occhi per vedere». 
A tratti la teatralità delle situazioni e dei personaggi (tra medium, lettori del pensiero, studiosi di scienze occulte che si credono posseduti dalle Forze Supreme) è eccessiva, e si fatica a comprendere se gli autori si stiano divertendo molto o se al contrario tentino di prendersi sin troppo sul serio, sfociando, in taluni casi, nella stessa parodia dei generi.
Come capiterà più tardi a Hake Talbot in Rim of the Pit (1944), questo maniacale accumulare di situazioni impossibili crea un surplus narrativo di sovrannaturale, che determina due conseguenze dirette. La prima è che il lettore smette molto presto di credere "ai fantasmi", ed automaticamente l'opera cessa di bordeggiare sul fantastico. La seconda conseguenza riguarda invece la difficoltà di districarsi da questa folta schiera di problematiche in apparenza miracolose: occorre un genio per spiegarle tutte coerentemente, con logica inappuntabile e ingegnosità. E Winslow e Quirk, in larghi tratti dello scioglimento, non saranno in grado di rendere merito al geniale intreccio ideato. Ancora meno sarà in grado di farlo Hake Talbot in Rim of the Pit. Ciò non preclude di certo la lettura di un testo davvero spettacolare, da un paio d'anni finalmente disponibile in Italia grazie alla Polillo, che lo ha pubblicato con il titolo Svanito nel nulla. Nonostante le mie puntualizzazioni, va detto che tutti i critici più importanti considerano questo romanzo un capolavoro, imperdibile per ogni appassionato.
Queste opere, in ogni caso, restano tremendamente importanti nella storia della letteratura poliziesca, perché mostrano apparenti zone d'ombra totalmente dimenticate dalla critica accademica: questi autori, a cui si aggiungono i Clayton Rawson, i Joseph Commings, e poi Ellery Queen, John Dickson Carr e tanti altri, rappresentano la vera essenza della detective story americana, che è ben lontano dall'essere rappresentata dai soli Hammett e Chandler. 

domenica 4 gennaio 2015

The Case of the Seven of Calvary (Il caso del sette del calvario, 1937) - Anthony Boucher


William Anthony Parker White, in arte Anthony Boucher, è una di quelle figure che segnano un'epoca. Un uomo rinascimentale, lo ha definito Frederic Dannay, un intellettuale a 360 gradi: meraviglioso linguista (antiche o moderne non fa differenza), traduttore, romanziere e soprattutto critico letterario, la presenza di Boucher negli anni Trenta e Quaranta del Novecento ben spiega perché quelli erano gli anni della Golden Age, mentre adesso..beh, lasciamo perdere.
Boucher è stato probabilmente il più grande recensore e critico di narrativa poliziesca (e fantastica) del secolo scorso: «non c'è quasi autore - compresi quelli che esordivano in paperback ed erano quasi sempre ignorati dalla critica ufficiale (David Goodis, Charles Williams, Jim Thompson, etc) - che non debba qualcosa all'ampiezza dei suoi gusti e all'autorevolezza delle sue segnalazioni, così come non c'è quasi ristampa in edizione tascabile di libri apparsi fino al 1968 e che siano in qualche modo significativi (non importa se di autori maggiori o no) che non rechi, magari condensata in due righe stralciate da una recensione o in una breve presentazione, l'impronta della sua inconfondibile griffe» (Mauro Boncompagni).
In breve, la firma di Anthony Boucher ha segnato il Novecento, sia come critico che come romanziere. Tra il 1937 e il 1942 ha pubblicato sette romanzi e svariati racconti che appartengono alla grande Golden Age del romanzo poliziesco, quando gli autori erano fini intellettuali e uomini di cultura, la cui lezione - tecnica, stilistica, umana - non morirà mai.
Boucher esordisce nel 1937, a soli 26 anni, con The Case of the Seven of Calvary, un delizioso giallo di ambientazione accademica, un mystery concepito per gli appassionati di polizieschi, scritto con sopraffina eleganza e raffinatezza, che ancora oggi regge benissimo alle intemperie del tempo.
A Berkeley, università della California, la piacevole vita da college viene rotta da alcuni misteriosi delitti sui quali indagherà, del tutto spassionatamente e comodamente in poltrona, il dottor John Ashwin, professore di sanscrito, ragguagliato di volta in volta dallo studente Martin Lamb, Watson di turno, narratore del romanzo e alter-ego di Boucher.
Tra rimandi queeniani (una accattivante e lealissima sfida al lettore, la presenza di una bizzarra setta religiosa che richiama quella di The Egyptian Cross Mystery, 1932), continue citazioni (Conan Doyle, Wallace, il «mai abbastanza lodato John Dickson Carr») e toni da divertissement, Boucher dispensa la sua enorme cultura riempiendo di magistrale ironia e umorismo una storia poliziesca di primissimo ordine, ben costruita, disseminata di indizi astuti e intriganti, che si conclude in modo sorprendente. 
Ispirato al professor Arthur William Ryder, Ashwin possiede tutte le caratteristiche del vero intellettuale, dalla cultura sterminata e dai gusti ecumenici, che svariano in ogni ambito dell'umano sapere, fino, ovviamente, alla letteratura poliziesca, di cui è un grande appassionato. I ragionamenti di Ashwin sono eccellenti, e dimostrano una notevole proprietà di linguaggio logico. Le discussioni con Martin sul genere poliziesco e sui grandi autori, da Dickens a Carr, sono delle chicche di erudizione e fine umorismo; le digressioni (sul sanscrito o il teatro) non sono mai banali né noiose, e rendono la narrazione ancora più piacevole e garbata.
Un uomo d'altri tempi Anthony Boucher, uno scrittore e critico d'altri tempi, di quelli che oggi si vedono con il lumicino.
in Italia è stato pubblicato da Polillo e Mondadori (col titolo Tre volte sette). Traduce Delio Zinoni.