giovedì 11 giugno 2015

Una nuova consapevolezza?

Se due o più indizi costituiscono una prova, e puntano cioè verso una medesima direzione, allora possiamo affermare che, finalmente, sia arrivato il momento della rottura delle convenzioni, quelle che troppo spesso accompagnano gli studi sulla detective fiction. Se in Italia non ce la passiamo troppo bene (la casa editrice Polillo è per ora in stand-by), in Inghilterra le cose sembrano andare diversamente: non solo molti grandi Golden Age writers stanno iniziando ad essere riproposti dalle più diverse case editrici (Freeman W. Crofts, Jefferson Farjeon, che ha ottenuto un successo clamoroso, John Bude, etc), ma recentemente sono stati pubblicati due saggi eccezionali, scritti da due personalità importanti nel mondo della crime fiction.
Il primo è The Golden Age of Murder (2015), opera monumentale dello scrittore britannico Martin Edwards, che ripercorre attraverso autori, romanzi, vite e aneddoti, la grandiosa storia della Golden Age; e il risultato è davvero sorprendente, innanzitutto per la brillantezza dello stile, ma anche per la quantità di materiale presentato, l'accuratezza dell'eloquio e la mole di informazioni.
Il secondo saggio è invece The Spectrum of English Murder (2015), scritto dallo studioso Curtis Evans, il quale ripercorre le opere e il pensiero di figure eccezionali come Henry Wade e i coniugi Cole: legando storia sociale a critica letteraria, Evans vuole demolire l'opinione comune che vede tutti i Golden Age writers come conservatori e politicamente schierati a "destra". Insomma, entrambi gli studiosi hanno lo scopo di mostrare la grandissima complessità del mystery, e pretendono di farlo distruggendo tutte quelle convinzioni che erroneamente sono state portate avanti dalla critica nel corso degli anni.
Tutto ciò è ossigeno puro in un ambiente dominato dal pensiero critico di Lucy Worsley, Susan Rowland o P.D. James. Purtroppo, l'idea che il romanzo poliziesco della Golden Age sia diviso in due tronconi e filoni incompatibili (il British detective novel e l'Hard Boiled novel), sembra aver contagiato ormai ogni studioso che si approccio al genere. L'idea, ancora più folle, che il British detective novel della Golden Age sia dominato da autrici esclusivamente femminili e di origine britannica (le Crime Queens, su tutti la Christie e la Sayers) è ancora più radicata, come si può notare dal saggio del 2009 di P.D. James Talking About Detective Fiction
La James, da poco scomparsa, è stata una scrittrice di primo piano, ma dal punto di vista critico il suo saggio è semplicemente un disastro. È parziale, per certi versi fazioso e contro ogni verità storica, pieno di errori e omissioni. Se è vero che nella prefazione ammette di non voler tracciare una storia del genere, non è ugualmente accettabile che in un saggio sulla detective fiction non vengano nemmeno nominati i veri grandi autori, da Ellery Queen ad Anthony Boucher, passando per un John Dickson Carr a malapena citato. Tralasciando i tanti errori - il colpevole di La lettera rubata di Poe non è certamente il personaggio meno sospetto; l'idea che il mystery non fosse rispettato dagli intellettuali sino alla pubblicazione di Gaudy Night (1935) della Sayers è un'assurdità, come ha ben dimostrato Curtis Evans nel saggio Murder in the Criterion. T.S. Eliot on Detective Fiction (2014) - la James insiste davvero troppo sull'importanza delle norme e delle regole (quelle di Knox, perché Van Dine non è mai nemmeno citato), punto sul quale credo John Dickson Carr abbia speso parole abbastanza definitive nel saggio The Greatest Game in the World (1946).

Io mi auguro che l'apporto critico di studiosi come Evans e Edwards serva per dare una scossa allo stagnante panorama critico internazionale, e permetta di gettare nuova luce su un genere bistrattato e mal compreso. Troppi hanno questa malsana idea che i romanzi della Golden Age siano popolati solo da detective snob e altolocati, dove le donne parlano come Maggie Smith in Downtown Abbey, dove il crimine è un passatempo, le regole governano la narrazione, il sangue non scorre mai e alla fine ogni ordine sociale viene restaurato. Tutto ciò è falso. Sono solo generalizzazioni, alcuni dei tanti miti che circolano e che spero vengano presto spazzati via. 
Per fare un ultimo esempio, il solito Evans, nel bellissimo saggio The Amateur Detective Just Won't Do: Raymond Chandler and British Detective Fiction (2014), non solo ha dimostrato come l'Hard-Boiled fiction di Chandler avesse molto in comune con il mystery classico, ma che lo scrittore americano, contrariamente alle posizioni (dettate dalla propaganda) espresse in The Simple Art of Murder (1950), leggesse e fosse un sincero ammiratore di autori come Crofts o Freeman, ovvero i giganti del romanzo poliziesco inglese. 
In Italia, purtroppo, ancora si parla di "vasi di cristallo", di Hammett che ha rigettato il delitto nei vicoli, del mystery Golden Age come cruciverba o gioco enigmistico. 
Altrove, pare, il tempo per spazzare via gli stereotipi sembra invece arrivato.

martedì 12 maggio 2015

La giostra degli scambi, 2015 - Andrea Camilleri

Si respira un'aria d'incertezza nella Vigata di Montalbano, un'aria a tratti limpida, carezzevole, a tratti putrida e pesante, che ti impedisce di ragionare bene, capire cosa non ci sia più, cosa sia cambiato. 
Siamo lontani dal miglior Camilleri, e su questo è difficile essere in disaccordo, con l'autore siciliano che ha dato la sua ultima graffiata ormai cinque anni fa, con La caccia al tesoro. Siamo lontanissimi dai capolavori (Il giro di boa; La pazienza del ragno), e altrettanto distanti dal melmoso, confusionario e tortuoso universo de La piramide di fango, pubblicato nel 2014. 
Con La giostra degli scambi, edito da Sellerio il 30 aprile 2015, Camilleri  mostra di credere sempre di meno a Montalbano, e sempre di meno al romanzo poliziesco. A differenza di alcuni titoli precedenti la storia scorre bene, è facilmente comprensibile e a tratti interessante -- anche se alcuni snodi narrativi ricordano quelli de Il gatto e il cardellino, racconto contenuto nella raccolta Gli arancini di Montalbano. Ma, come detto, l'autore sembra non avere più voglia di aggiungere niente ai suoi personaggi: Montalbano invecchia solo a parole, Fazio non fa altro che ripetere "già fatto", a Catarella scappa la mano quando bussa, Augello alterna momenti di lucidità a sprazzi da neo-Watson dall'intelletto bacato, e Livia appare in poco più di un paio di noiose e inutili telefonate. I personaggi, insomma, non evolvono più da anni, sono marionette che ripetono stancamente le stesse battute, si muovono nello stesso, invecchiato e intristito, palcoscenico. 
Un'aria di pesante inerzia narrativa aleggia su questo romanzo che, per carità, per noi appassionati è sempre bello gustare, ma stavolta manca anche un certo ampio respiro, una certa atmosfera. Ci sono poche descrizioni, pochi momenti di lirismo, tutto si snoda con pacata lentezza.
Anche se, alla fine, ciò che maggiormente mi infastidisce è il rapporto di amore-odio che Camilleri instaura con i modi del noir, o del romanzo poliziesco, o in qualunque modo vogliate chiamarlo: ha spesso ripetuto come per lui il genere sia poco più che una gabbia, deve scrivere capitoli della stessa lunghezza, seguire determinati precetti, non sfuggire alle regole. Ci sono non più di due personaggi in questa storia, due sospettati: se il primo sembra il colpevole per 2/3 del romanzo, non potrà che essere l'altro, alla fine, il vero assassino. Quando Camilleri capirà che il poliziesco è tutt'altro che un'insieme di regole scritte, forse, sarà troppo tardi.

martedì 5 maggio 2015

La Maison qui Tue (1932) - Nöel Vindry

La Maison qui Tue è il primo romanzo scritto da Noel Vindry, forse il massimo esponente della Golden Age del romanzo poliziesco francese. L'opera, mai più ripubblicata dopo la prima edizione del 1932, è stata finalmente riproposta in lingua inglese, tradotta da John Pugmire per la sua eccellente casa editrice, Locked Room International, con il titolo The House that Kills. Curiosamente il romanzo è uno dei pochi di Vindry pubblicati anche in Italia: uscì nel 1948 con l'ottimo titolo La villa dei cipressi, edito dalla Società Editoriale Italiana di Milano, con la traduzione, credo assolutamente non integrale, di Jacopo Mannozzi. 
Io non sono uno dei fortunati che ha avuto la possibilità di avere tra le mani l'edizione italiana, oggi rarissima e praticamente introvabile, e ho letto esclusivamente la versione inglese, sulla quale posso essere certo per ciò che riguarda accuratezza e professionalità: la traduzione di Pugmire ben si adatta ad uno stile, quello di Vindry, piuttosto semplice, ma scorrevole e piacevolissimo.
Noel Vindry, oggi praticamente sconosciuto al di fuori dei confini francesi, è in realtà uno dei grandi mystery writers europei degli anni Trenta: tra il 1932 e il 1937 scrisse dodici camere chiuse tra le più eccitanti e virtuosistiche dell'epoca, e non a caso venne definito da Thomas Narcejac "poète du roman problém". Assieme a Pierre Boileau, nel loro saggio dedicato alla narrativa poliziesca, i due fecero riferimento a Vindry sottolineando il suo incredibile virtuosismo e la sua capacità di ideare i puzzle più stupefacenti, a discapito, spesso, di una certa freddezza nella prosa.
Parlando esclusivamente di plot, dunque, in pochi possono rivaleggiare con il francese sul piano dell'ingegnosità: nei suoi romanzi si snodano infatti continue situazioni impossibili, risolte sempre con logica stringente e sublime agilità intellettiva.
Vindry, nato a Lione nel 1896, divenne juge d'instruction dopo il 1915 in un bellissimo paesino della Provenza, lo stesso luogo in cui si muove il suo investigatore, una sorta di alter-ego e pura macchina pensante, Monsieur Allou.
Allou esordisce in questo ottimo romanzo scritto e pubblicato nel 1932, anno eccezionale nella storia del mystery, che contiene ben tre situazioni apparentemente inspiegabili: il primo è un classico delitto di camera chiusa, il secondo un assassinio compiuto di fronte ad una folla di testimoni e nel terzo, solo tentato, la vittima è proprio Allou, colpito da un colpo di pistola nel proprio appartamento chiuso dall'interno.
Vindry mette già parecchia carne al fuoco, e dimostra di conoscere benissimo i classici, da Leroux, che amava moltissimo e riteneva l'emblema degli scrittori polizieschi, a Zangwill: se il secondo delitto è sin troppo arzigogolato e richiede qualche coincidenza di troppo, il primo è risolto con grande astuzia, e rappresenta un'eccellente variazione delle camere chiuse che campeggiano ne Il grande mistero di Bow e ne Il mistero della camera gialla.
Con Vindry possiamo effettivamente notare le differenze, numerose, che intercorrono tra i francesi e gli anglosassoni: qui l'interesse è quasi esclusivamente nel plot, nelle falde magmatiche del rompicapo e nel modus operandi dell'assassino, la cui identità, come spesso accade, è piuttosto semplice da individuare. Non whodunit dunque, ma howdunit
La prima parte, dove si respira un'atmosfera inquietante, è la migliore del romanzo, ma anche la seconda risulta piacevole, perciò non sono troppo d'accordo con Fooz, Bourgeois e Soupart che sostengono, nel loro volume Chambres Closes, Crimes Impossibles (1997), come il ritmo cali vertiginosamente dopo l'attentato all'investigatore.
La Maison qui Tue, dunque, pur non arrivando a quelle memorabili vette tecniche che l'autore raggiungerà in La Bête Hurlante (1934) e in À Travers le Murailles (1936), è un ottimo romanzo d'esordio, assolutamente da non perdere. Chissà che le nostre case editrici, tra una porcheria e l'altra, non decidano anche di offrire della buona letteratura d'intrattenimento.

giovedì 30 aprile 2015

Corollario a Le traduzioni italiane di Agatha Christie - La morte nel villaggio

Qualche tempo fa, la traduttrice Diana Fonticoli è intervenuta qui sul blog, nel post dedicato alle traduzioni italiane di Agatha Christie, affermando l'ipotesi che la sua versione de La morte nel villaggio, pubblicata in un Omnibus ad inizio anni Novanta, sia stata perduta dalla Mondadori, e che per tale motivo, nelle successive ristampe del testo, era sempre stata scelta la traduzione di Giuseppina Taddei, risalente agli anni Trenta.
Oggi, in libreria, ho notato la presenza de La morte nel villaggio nella recentissima edizione Mondadori, quella con le copertine simili alle inglesi. Ebbene, anche qui è stata scelta la versione della Taddei. E siccome tutti gli altri libri della collana hanno come traduzione quella più recente, è chiaro che Diana Fonticoli aveva ragione.
È un peccato.

domenica 26 aprile 2015

The Mystery of 31 New Inn (Una carrozza nella notte, 1905) - Richard Austin Freeman

In questi ultimi mesi, in Italia, sta avvenendo una sorta di grande riscoperta di Richard Austin Freeman, uno dei maggiori scrittori di romanzi polizieschi dell'epoca edoardiana  e tra coloro che, ancora oggi, si leggono con più gusto.
Le sue opere sono state ripubblicate ultimamente da Castelvecchi, in due ottimi volumi, e Mondadori, che ha riscoperto anche un eccellente inedito del 1938.
Nella storia del mystery, Freeman è una figura chiave: inventore della "forma  romanzo" secondo Narcejac, è idealmente una sorta di raccordo tra il poliziesco di fine Ottocento e la Golden Age, tra Conan Doyle e Agatha Christie.
Il racconto di cui parliamo oggi, pubblicato in Italia da Polillo nel 2007, è il primo scritto da Freeman nel 1905 con protagonista il dottor Throndyke, l'investigatore scientifico per eccellenza. L'opera rimase però inedita fino al 1911, quando fu pubblicata sulla rivista Adventure; quell’anno Freeman lo ampliò fino a farlo diventare un romanzo, dal titolo The Mystery of 31, New Inn (1912). Ufficialmente, come ben si conosce, la prima apparizione dell'investigatore risale invece al 1907, con il romanzo The Red Thumb Mark (L'impronta scarlatta 1907).
La versione pubblicata Polillo è quella originale, che, sebbene acerba, mostra le tante abilità che hanno reso grande questo autore: trame intriganti costruite con cura, stile piacevole ma elegante, ritmo spedito e indizi astutamente disseminati nel testo.
La storia, dal punto di vista tematico e contenutistico, si attesta all'interno di una tradizione schiettamente sherlockiana: il dottor Jervis, il narratore, ha il tipico ruolo del dottor Watson, mentre Throndyke è un novello Holmes; la storia, inoltre, ha inizialmente toni da racconto di Conan Doyle. Il dottor Jervis, ormai arrivato a fine giornata lavorativa, viene contattato da tale J. Morgan per visitare il fratello, molto malato, nella propria abitazione. La richiesta è bizzarra perché, secondo le parole dell'uomo, il fratello ha espressamente richiesto di essere visitato da un medico non della zona. Perché tutta questa segretezza? E come mai il cocchiere che accompagna Jervis e il padrone di casa J. Morgan sembrano la stessa persona? 
Nonostante i rimandi a certi classici con protagonista Holmes siano evidenti (vedi L’avventura del pollice dell’ingegnere), la bravura di Freeman permette al racconto di prendere vie nuove e inesplorate. L'autore decide, e questa sarà una sua peculiarità, di intrecciare due storie apparentemente separate, che troveranno alla fine un imprevedibile congiungimento.
Il Dottor Throndyke non è ancora al massimo della forma (non ha ancora la valigetta e i suoi attrezzi) ma mostra già le sue vastissime conoscenze in campo legale, medico, chimico, ma anche letterario e storico, possiede un eccellente potere deduttivo ed è capace di spiegare avvenimenti apparentemente assurdi con grande coerenza e logica. 
Il grande passo in avanti compiuto da Freeman rispetto a Doyle riguarda senza dubbio la costruzione dell'intreccio e l'utilizzo degli indizi. Ce ne sono tanti e alcuni di essi non mancheranno di sorprendere il lettore.

Il racconto si legge in poco più di un'ora, e diverte moltissimo.

venerdì 10 aprile 2015

The John Dickson Carr Companion (James E. Keirans, 2015)

Ci sono gli scrittori di mystery, e poi c'è John Dickson Carr.
James E. Keirans, appassionato studioso, ha appena pubblicato grazie alla casa editrice Ramble House una delle più importanti opere sul Maestro americano. Questo massiccio volume di oltre 400 pagine va a formare una indissolubile coppia con la celebre biografia di Carr, scritta da Douglas Greene nel 1995, John Dickson Carr: The Man who Explained Miracles.
Questo testo di Keirans è essenzialmente da consultazione ed è strutturato alfabeticamente dalla A di Aaronson (bizzarro personaggio che appare nel romanzo And so to Murder) alla Z di Zia Bey (un'americana sui quaranta che muore nel capolavoro Nine-and Death Makes Ten, appena ripubblicato da Mondadori).
L'opera include quasi tutti i personaggi, maggiori, minori e reali (Hitler, Picasso, Monet etc) apparsi o citati nelle opere poliziesche di Carr, con descrizione e caratteristiche; troverete, alfabeticamente, nominati tutti i romanzi, i racconti, i radiodrammi, gli articoli, i saggi, le recensioni, e ancora tutti i luoghi in cui l'autore americano ha condotto i propri lettori (bar, pub, club, stazioni, ristoranti etc). Potrete trovare tutto ciò che concerne gli alcolici (di cui era un appassionato), le automobili, le parole latine, i proverbi, le residenze di Fell e Merrivale, le case di campagna, le citazioni, oltre a tutti i metodi di assassinio, dal colpo di pistola all'avvelenamento.
Qualche tempo fa, lo stesso Keirans aveva pubblicato un breve saggio (mi sembra sulla rivista CADS) in cui trattava di "avvelenamenti e avvelenatori" nel corpus carriano.
Insomma, in questo The John Dickson Carr Companion c'è tutto l'amore possibile per un autore che non smetterà mai di far sognare i propri lettori, e che merita un'opera così. 

mercoledì 1 aprile 2015

Il banchiere assassinato (Augusto De Angelis, 1935)

Una Milano sfuggente, avvolta dalla nebbia e coperta da una fastidiosa umidità apre questo romanzo scritto nel 1935 dal maggiore autore italiano di romanzi polizieschi del ventennio, Augusto De Angelis.
Fine letterato prestato alla narrativa gialla, De Angelis si approccia al genere con grande intelligenza ed acume, dimostrando ampie letture e un non comune eclettismo.
Milano è, sfortunatamente, un semplice sfondo per un romanzo giocato quasi esclusivamente in interni (in particolare quello di casa Aurigi, il luogo del delitto), dove si intrecciano le storie di diversi personaggi appartenenti a differenti ceti sociali (nobili decaduti, arricchiti che hanno distrutto il capitale, proletari). Le vicende ruotano attorno al delitto del banchiere Carlini, ucciso da un colpo di pistola all'interno dell'appartamento di Giannetto Aurigi, e al triangolo amoroso che unisce quest'ultimo, la fidanzata e un giovane ragazzo dal passato difficile.
Ad indagare c'è il Commissario De Vincenzi, qui alla sua prima apparizione, uomo di grande acume ma anche profondamente umano nella sua severità e austerità.
Tra echi genuinamente simenoniani (il prologo nella squallida Questura, con l'enfasi sulla caldaia, ricorda quello di Pietr il Lettone di Simenon), stoccate al modello poliziesco anglosassone (bastano poche pagine all'autore per schernire il metodo investigativo tutto "cellule grigie" dell'investigatore privato Harrington) e qualche dialogo enfatico di troppo, il romanzo si legge con piacere. E questo si deve soprattutto al talento narrativo dell'autore, che sorretto da una prosa quasi esclusivamente dialogica costruisce una vicenda umana e credibile.
Il romanzo somiglia molto a un dramma teatrale (parola che ricorre spesso nel testo), sia per la struttura narrativa che per l'ambientazione. L'intreccio poliziesco non entusiasma, ma è sufficiente per intrattenere e rendere piacevole la lettura. Il movente dell'assassino, tuttavia, convince poco.
Le vicende politiche sono lontane, fino all'ultima pagina, quando un rinvigorito Giannetto Aurigi si presenta dal suo salvatore De Vincenzi (erano vecchi amici e compagni di collegio) per annunciargli la partenza per l'Abissina. A De Vincenzi scappa una lacrima, ma di certo per l'addio dell'amico, non perché toccato da ideali patriottici.
Questo romanzo, pur lontano dalle migliori opere dell'autore, presenta più di un elemento d'interesse, e ci consegna un De Angelis intellettuale di spessore, curiosissimo e aperto. La sua attività di giornalista, diffusore del romanzo poliziesco in Italia e critico letterario (alcune sue pagine sono davvero illuminanti), sono sempre lì a testimoniarlo con forza.