Il primo periodo queeniano, individuabile tra il 1929, anno d'esordio, e il 1936 circa, è oggi il meno considerato nell'intera produzione firmata dai due cugini americani Frederic Dannay e Manfred B. Lee. Questo è dovuto principalmente al poco valore conferito dalla critica contemporanea al whodunit puro, parola che normalmente vuol significare poco, ma che per il primo Ellery Queen è piuttosto calzante. Per chi scrive, invece, siamo alle vette della storia del romanzo poliziesco.
La prima produzione con protagonista il giovane detective newyorkese, che affianca nelle indagini il padre Richard Queen, ispettore di polizia, è di schietta tradizione vandiniana: ambienti altolocati, personaggi appartenenti all'alta borghesia, criminali metodici e cervellotici, trame artificiosamente ricreate come in laboratorio, complesse e bizzarre ma strutturalmente impeccabili. Dannay e Lee seguono inizialmente la scia di Van Dine come tanti altri loro contemporanei (Anthony Abbott, Stuart Palmer, Rex Stout, Charles D. King etc) per svariati motivi, tra cui quelli economici: in un momento drammatico della storia americana, la Grande Depressione, scrivere polizieschi di successo era un modo eccellente per superare la crisi, e nessuno vendeva quanto il grande S.S. Van Dine.
Così, dopo un esordio convincente ma acerbo (The Roman Hat Mystery, 1929), Queen pubblica un romanzo che è una delle espressioni più pure e perfette del "vandinismo", The French Powder Mystery.
Nei grandi magazzini French, a New York, ogni martedì mattina a mezzogiorno si svolge una particolare esibizione nella vetrina al piano terra, in cui una modella illustra le caratteristiche dei mobili disegnati dall'artista francese Paul Lavery. Che sorpresa, dunque, quando un giorno, all'interno del letto pieghevole viene ritrovato il cadavere della signora French, uccisa da due colpi di pistola al cuore.
Titolo ambiguo, ambientazione metropolitana inusuale, predilezione per le scene in interni e sfida al lettore (con tutti gli indizi forniti per risolvere l'enigma) sono le caratteristiche dei romanzi del primo periodo queeniano, che con questo testo prende forma nitida e precisa. Gli autori costruiscono un meccanismo estremamente elaborato ma non eccessivamente tortuoso o difficile da seguire; i grandi magazzini, con i suoi lavoratori e il frenetico via-vai, rappresentano, come ha scritto Francis Nevins, quasi un personaggio unico, funzionale alla trama ma ottimamente armonizzato. La caratterizzazione dei personaggi, infatti, è praticamente assente, le descrizioni sono ridotte ai minimi termini, ma questo non deve assolutamente far pensare ad una non-letterarietà.
Benché in alcuni casi Queen rischi di incappare in quella che Boncompagni ha definito "ipertrofia stilistica" (dovuta, spesso, al non eccellente rapporto che intercorso tra i due cugini), la prosa di Dannay e Lee è sempre di alta qualità: pur mancando una tensione narrativa che non sia esclusivamente di carattere intellettuale, il testo scorre via con estrema piacevolezza, perché i due cugini, pur giovani e acerbi, padroneggiano la lingua e la materia con sapienza. Con The French Powder Mystery, Queen da una parte smorza gli eccessi vandiniani (gli artifici stilistici, la magniloquenza della prosa, le citazioni colte del detective), dall'altra conserva e conduce al massimo livello i principi tecnico-strutturali del creatore di Philo Vance, ovvero il metodo investigativo (per eliminazione) e la sottigliezza dei ragionamenti.
Anche qui, come in molti Van Dine prima maniera, si susseguono quasi solamente interrogatori, domande, risposte, perquisizioni e ritrovamenti, ma la struttura narrativa è ai limiti della perfezione: Ellery si muove attraverso deduzioni sempre più sorprendenti ma nello stesso tempo sempre più logiche, stringenti e inappuntabili.
Le ultime 35-40 pagine, in cui il giovane riprende le fila della trama ripercorrendo tutti i bizzarri eventi, conferendogli infine un senso preciso, sono controversi: se Anthony Boucher, meravigliato dalla perfezione tecnica della spiegazione e dalla brillantezza dei ragionamenti, sostiene che siano tra le pagine più ammirevoli della storia della narrativa poliziesca, Mike Grost ne evidenzia invece la sostanziale inutilità, perché se si esclude il nome dell'assassino, esse non aggiungono alcuna nuova deduzione a quelle già esposte nei paragrafi precedenti. La verità sta probabilmente nel mezzo: la fitta spiegazione di Ellery è troppo lunga, ma al tempo stesso è una illuminante manifestazione di logica deduttiva.
Interessanti sono anche i riferimenti all'Art Déco: la mobilia allestita da Paul Lavery nei magazzini French è definita "modernist" dagli autori, ma non sembrano esserci dubbi a riguardo. Come ha scritto Mike Grost, Queen descrive accuratamente il modo in cui questo tipo di corrente artistica, sia dal punto di vista estetico che sociologico, è percepita dai contemporanei, dimostrando ancora di più quanto anche questi primi romanzi, nonostante l'intellettualismo imperante, rappresentino una testimonianza fondamentale per comprendere gli Stati Uniti degli anni Trenta.
Un grande romanzo, scritto da coloro che rappresentano in tutto e per tutto "la vera detective story americana".
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