mercoledì 17 dicembre 2014

Six Hommes Morts (Il patto dei sei, 1931) - Stanislas A. Steeman

Stanislas A. Steeman è uno scrittore poco conosciuto, oggi, al di fuori dei paesi francofoni. Questo è il triste destino di tutti gli autori anni Trenta di lingua francese che non si chiamano George Simenon.
Ed è un peccato, perché Steeman è stato uno dei grandi rivoluzionari del romanzo poliziesco, dotato di grande immaginazione, abilità narrativa e senso dello spettacolo. Le sue trovate, spesso geniali, hanno influenzato autori insospettabili, su tutti Agatha Christie.
Nato a Liegi, nel 1908, è stato giornalista, prima che scrittore a tempo pieno, inizialmente in coppia con Herman Sartini, poi da solo. L'esordio, con Le Mystère du Zoo d'Anvers (1928), è una sorta di divertissement, mentre il primo romanzo degno di nota è Péril (1930).
Questo Six Hommes Morts, pubblicato nel 1931, è importante per svariate ragioni. Innanzitutto perché vede l'esordio del personaggio più famoso di Steeman, l'investigatore Wenceslas Vorobeitchik (M. Wens); in secondo luogo perché è il romanzo con cui vinse il Prix du Roman D'aventures, nel 1931, a soli 23 anni. 
Soprattutto però, con quest'opera Steeman fece scuola: sei amici, giovani e senza un soldo, decidono di espatriare per cercare fortuna, concedendosi cinque anni di tempo per diventare ricchi. Al loro ritorno, il giorno prestabilito, si dovranno spartire il denaro accumulato in perfette parti uguali. Quando ciò avviene, però, sono costretti a fare i conti con uno spietato assassino che ha giurato di ucciderli tutti. E sembra agire come un killer invisibile.
L'intreccio è ingegnoso e in anticipo sui tempi: sarà di lezione per Boileau (Six crimes sans Assassin) e soprattutto per Agatha Christie (Ten Little Indians), che conosceva perfettamente l'opera di Steeman (nonostante, che io sappia, non avesse una eccellente conoscenza del francese).
Come detto, Steeman era molto giovane, e i difetti dell'opera, tanto strutturali quanto tecnici, sono evidenti: il personaggio di Wens, misogino, bizzarro e a tratti miope, è poco caratterizzato, le meccaniche dei delitti non sono sempre chiare (in particolare il secondo, quello in ascensore), e soprattutto il modo in cui l'assassino sarebbe dovuto, alla fine, tornare in possesso dell'eredità, nel caso il suo piano fosse riuscito, è difficilmente credibile.
La storia, come capita a volte in alcuni scrittori francesi, è molto lineare, del tutto priva di subplots, quindi più funzionale per un racconto che per un romanzo (anche se, va detto, il testo è molto breve). La soluzione, e quindi l'identità del colpevole, è oggi davvero prevedibile, ma all'epoca doveva apparire come un geniale colpo di scena.
Nonostante i difetti, il romanzo si legge ancora oggi con grande piacere, e conoscere la soluzione dopo poche pagine non rovina la suspense, in cui Steeman era un vero maestro.
Nel complesso, un'opera decisamente naïf, con qualche ingenuità nella costruzione e dei personaggi tratteggiati con eccessiva approssimazione, ma dotata di ottimo senso del ritmo e inventiva.
In Italia è stato tradotto da Aldo Albani nella collana Pagotto, con il titolo Sei uomini morti, e da Igor Longo, per Mondadori, pubblicato nel 1999 come Il patto dei sei.
Da leggere, in particolare se si ha voglia di comprendere l'importanza di questi autori nell'evoluzione del romanzo poliziesco.

mercoledì 10 dicembre 2014

The Maltese Falcon (1930) e The Big Spleep (1939): Dashiell Hammett e Raymond Chandler, i pionieri del noir


The Maltese Falcon e The Big Sleep sono due romanzi molto diversi, nonostante le indubbie affinità. 
Entrambi primari capisaldi dell'hard-boiled novel  entrambi espressioni letterarie del grande noir classico, entrambi caratterizzati dalla presenza di un detective privato dalla pistola facile e la battuta pronta, sono in realtà due romanzi che hanno diversa intenzione, diversa natura, diverso stile e diverso risultato.
Come ho detto qualche giorno fa, la vibrante, potente ma sordida prosa hammettiana, "a cui si apre il non-detto" (Minganti), così difficile da tradurre e rendere nella nostra lingua, fa breccia nella mente del lettore in modo quasi meschino, e lì vi rimane. E' difficile liberarsi di Hammett e del Falco, mentre si rimugina continuamente sulla sua punteggiatura, i suoi strappi e le sue contrazioni narrative, all'interno di un montaggio cinematografico "di sole immagini" (Minganti). 
Questo romanzo è un punto di arrivo per Hammett, che si libera della prima persona narrativa e impone un nuovo registro stilistico, economicamente perfetto, secco ma efficace, sul quale modella quello che credo rimanga il più alto prodotto dell'hard-boiled novel mai scritto(pur essendo l'autore "visionario" del genere, come ha detto Barbolini). Certo la trama è esile, la credibilità di alcuni personaggi e alcune situazioni (Spade, la polizia, ma anche alcuni caratteri femminili) è a tratti solamente presunta, ma il risultato è ovviamente di livello. 
Io continuo a preferire qualche altro prodotto di Hammett, dove  la sua bravura nel costruire puzzle e disperdere indizi si rivela in tutta la sua potenza, ma sono gusti, e tali rimangono. Il Falco resta, nonostante dei difetti e alcuni snodi che al lettore di oggi appaiono prevedibili, un testo che raggiunge il suo scopo. Hammett è uno scrittore pulp, un duro, che nasce dai bassifondi, che scrive con forza, con genuinità, con la ferocia di chi sta in basso e vuole volare in alto. Questo è il vero pulp: l'insensatezza della vita, il gioco del destino, la vita, la morte e la cattiva scrittura (per dirla alla Charles Bukowski, che col suo Pulp ha regalato la più geniale parodia del noir che abbia mai letto).


Chandler non è pulp. E' stato educato in Inghilterra, non riesce e non riuscirà mai (e quanto ne soffrirà) ad essere stilisticamente Hammett; è un'altra cosa, ha altre intenzioni. Chandler ha aspirazioni molto alte, e questo lo porterà a esprimere duramente concetti inaccettabili per il solo scopo propagandistico. Due anni dopo la pubblicazione del suo saggio The Simple Art of Murder scriverà infatti ad Howard Haycrfat: "You must not take a polemic piece of writing like my own article from the Atlantic too literally. I could have written a piece of propaganda in favor of the detective story just as easily. All polemic writing is over-stated".
Chandler è stato un acuto lettore, con le sue preferenze e le sue fissazioni, ma non va preso mai alla lettera, come invece hanno fatto, purtroppo, tutti i critici e come continuano a fare tutt'ora. 
Prima celebrò Hammett come il salvatore della patria, poi si trovò a scrivere nel 1945 a Blanche Knopf, confessando di essere "stufo di dover andare in giro sulle spalle di Hammett e di James M. Cain come la scimmia di un suonatore d'organetto - e aggiungendo che c'erano tantissime cose che Hammett non sapeva fare" (Barbolini). Addirittura, e questo è davvero straordinario, scrisse, in Twelve Notes: "The perfect detective story cannot be written. [...] It would be nice to have Dashiell Hammett and Austin Freeman in the same book, but it just isn't possible".
Nonostante la sua avversione per gli intrecci troppo complessi, Chandler scrisse ugualmente romanzi che sono ancora ottimi esempi di costruzione narrativa e plotting, come The High Window o The Lady in the Lake.
The Big Sleep non è niente di tutto questo. Philipe Marlowe, qui alla sua prima apparizione, è il prodotto (quasi) finito di una lunga serie di investigatori chandleriani privi di mordente. Ma in questo romanzo non va nemmeno vicino al cinismo di Spade, ed è troppo integro, troppo romanticizzato e troppo moralmente e fintamente retto per attrarmi davvero. L'inesistenza di una trama (qui davvero datatissima), la mancanza di personaggi memorabili e le sbadataggini narrative (l'autore dimentica persino di dire chi sia il colpevole di uno degli omicidi), non sono i veri responsabili di un testo esageratamente sopravvalutato: il vero problema è che, contrariamente a The Maltese Falcon, qui il ritmo è davvero sonnambolico, e la tensione narrativa agonizza dall'inizio alla fine. Non mancano momenti di alto livello (il prologo, il cupo finale, il magistrale capitolo 26, in cui si rivelano le abilità dell'autore nelle sceneggiature) ma non bastano.
Chandler non riesce e non vuole essere Hammett, e costruirà qualcosa di assolutamente personale, ma non riuscirà mai ad andare fino in fondo, azzannare la materia sino a scarnificarne il corpo letterario. In breve, non riuscirà mai a passare dall'altra parte della barricata.

lunedì 8 dicembre 2014

L'imbarazzante prefazione di Goffredo Fofi a Fer-de-Lance (1934), Beat Edizioni - Rex Stout


A partire dal 2011, la casa editrice Beat ha iniziato a riproporre in libreria i grandi romanzi di Rex Stout con protagonista Nero Wolfe. Questo Fer-de-Lance è la sua prima indagine, pubblicata originariamente nel 1934 e precedentemente edita da Mondadori con il titolo La traccia del serpente.
Sul problema se l'iniziativa abbia senso o meno non sono qui per discuterne (anche se credo si capirà leggendo questo breve pezzo), mentre voglio concentrarmi sulla prefazione a questo volume, scritta dal critico cinematografico Goffredo Fofi.
Egli (giuro, sono parole reali), riferendosi ai romanzi gialli Mondadori scrive:

"Quando quei romanzi erano un po' troppo impegnativi e un po' troppo lunghi rispetto allo standard considerato ideale dal marketing della Mondadori, solerti traduttori e redattori provvedevano a tagliare, ridurre, addomesticare. E lo scopo era quasi sempre raggiunto: distrarre e divertire, ma tenendo tuttavia attivi i meccanismi della mente, un po' come succedeva con le parole crociate, un surrogato del vero pensiero, un riposo dal vero pensiero. Veniva di qui il fascino del giallo classico, romanzo da treno e romanzo da dopo lavoro o da pomeriggio domenicale e, senza offesa, da sala da bagno."

Io credo si possa fare cattiva informazione in tanti modi. Ma più incompetenza e ignoranza di così, compresse in poche righe, sono difficili da trovare.
Già il semplice fatto che si scriva a proposito di qualcosa di cui si ignorano anche le basi (altrimenti a questo punto occorrerebbe porsi domande di altro tipo) è piuttosto pericoloso, ma il fatto che si pronuncino certe frasi mentre si sta parlando di Stout, l'autore che in Italia forse più di tutti ha risentito dei terribili tagli dei traduttori, è talmente imbarazzante che non trovo nemmeno le parole da usare. Se aggiungiamo che la Beat ha usato una traduzione italiana vecchia e non integrale (ma lo ha fatto per tutti i testi di Stout), capirete benissimo che tipo di autogol ridicolo sia stato compiuto.
Se questa è la critica letteraria che ci meritiamo in Italia, siamo un paese morto e sepolto.
Che schifo.


lunedì 1 dicembre 2014

Il canone Holmesiano - parte 3



The Memoirs of Sherlock Holmes (Le memorie di Sherlock Holmes, 1894)

Gli undici racconti che costituiscono questa raccolta ci restituiscono un Conan Doyle decisamente maturato rispetto al volume precedente. Se da una parte ciò è ovviamente positivo (le storie sono meglio costruite e più appassionanti, con il delitto e la violenza che assumono ruoli di primo piano), dall'altra si perde lentamente quella componente naïf che rendeva alcuni racconti delle Avventure deliziosamente ingenui e perciò unici.
La raccolta è soprattutto celebre per The Final Problem, che doveva essere l'ultima performance con protagonista Holmes. Conan Doyle infatti aveva deciso di lasciar morire il proprio personaggio all'apice della fama, ma fu costretto a riesumarlo qualche anno dopo a causa delle frequenti e incalzanti richieste dei fans delusi. Fortunatamente lo scrittore accetterà e rivoluzionerà per sempre il romanzo poliziesco, regalando al pubblico quell'assoluto unicum letterario che è The Hound of Baskerville.

Silver Blaze (Silver Blaze)

Pubblicato sullo Strand Magazine nel 1892 questo eccezionale racconto vede Holmes e Watson muoversi nelle desolate terre del Dartmoor, impegnati ad indagare sulla scomparsa del famoso cavallo da corsa Silver Blaze e sulla morte del suo allenatore, John Straker. I sospetti sembrano indicare come colpevole il bookmaker londinese Fitzroy Simpson, ma le cose in realtà sono ben più complesse di così.
Un cerino, un temperino, uno scontrino per un vestito piuttosto costoso, un cane da guardia che non abbaia e un gruppo di pecore azzoppate sono solo alcuni dei tanti indizi che caratterizzano uno dei più geniali trionfi di Holmes e, più in generale, uno dei più riusciti Conan Doyle di sempre. L'intreccio è astuto ed ingannevole, pieno di sfumature ed indizi materiali, e per una volta quasi totalmente privo di incongruenze. La soluzione, che l'autore abilmente sdoppia, è logica e sorprendente. Le prime pagine faticano ad ingranare, ma poi ci si diverte.
Conan Doyle al meglio di se stesso.

The Adventure of the Yellow Face (La faccia gialla)

Perché una docile e amorevole moglie inizia a comportarsi improvvisamente in modo del tutto incomprensibile, uscendo di casa nel cuore della notte senza dare spiegazioni al marito? Ma soprattutto, chi è il terribile uomo con la faccia gialla che di tanto in tanto appare da una finestra della casa dei vicini?
Atipico, imprevedibile e commovente, La faccia gialla è uno dei più giustamente celebri racconti dell'intero canone. L'assoluta genialità sta nell'intrappolare Holmes con le stesse false piste con cui viene depistato il lettore: alla fine il detective avvertirà Watson di redarguirlo nel caso in futuro si dimostrasse troppo presuntuoso o arrogante. L'incruento finale smorza leggermente la magistrale tensione narrativa costruita con mano solida e matura, ma la conclusione anti razzista strappa più di una lacrima.
Il grande fallimento di Holmes è anche uno dei più sibillini capolavori del maestro di Edimburgo.

The Adventure of the Stockbroker's Clerk (L'impiegato dell'agenzia di cambio)

Mi sembra superfluo raccontare invece la trama di un racconto che assomiglia sin troppo al precedente La lega dei capelli rossi e che si basa, come non di rado accade in Holmes, nella richiesta d'aiuto di un ragazzo il quale, in difficoltà economiche, accetta un  lavoro eccessivamente retribuito rispetto alle reali mansioni da svolgere, con conseguenze spesso disastrose.
La sceneggiatura è zoppicante e la macchinazione alla base dell'intreccio davvero inverosimile. Si dimentica in fretta, e non aggiunge nulla di interessante al canone.

The Adventure of the Gloria Scott (Il mistero di Gloria Scott)

Secondo il canone questa sarebbe la prima avventura deduttiva del grande Holmes, avvenuta durante una sua vacanza nel Norfolk, ospite dell'amico Trevor, compagno dei tempi dell'Università.
Come nei precedenti A study in Scarlet e The Boscbombe Valley Mystery, siamo di fronte ad una prevedibile storia di vendetta, con personaggi ambigui e violenti che prima fanno fortuna in Australia e poi si trovano improvvisamente costretti a subire le conseguenze delle vecchie malefatte.
Ci sono troppi elementi contrastanti (date che destano più di una perplessità per gli sherlockiani e qualche dinamica intertestuale un po' approssimativa), ma non sono queste le ragioni principali che appiattiscono un breve racconto che diverte solo nelle sequenze iniziali.

The Adventure of the Musgrave Ritual (Il cerimoniale dei Musgrave)

Un altro dei parziali fallimenti del grande detective è contenuto in questo celebre racconto dall'andamento atipico, molto importante in particolare per le caratteristiche strutturali del plot, che lo renderebbero, secondo alcuni teorici della letteratura, un paradigma della detective story. Vale la pena, pertanto, soffermarcisi un attimo di più.
Holmes racconta a Watson di alcuni avvenimenti verificatasi dopo la visita di un suo vecchio conoscente degli anni universitari, Reginald Musgrave. Una notte l'uomo ha scovato il fidato maggiordomo Brunton mentre, nella biblioteca padronale, trafugava un importante documento familiare risalente al XVII secolo. Per evitargli il disonore Musgrave gli concede un mese per allontanarsi, ma poco tempo dopo Brunton scompare nel nulla, e con lui anche la cameriera Rachel, con cui tempo prima aveva avuto una relazione.
La ragazza è fuggita verso il lago, luogo in cui è stato rinvenuto un sacchetto contenente sassolini o pezzi di vetro colore scuro, e una massa di vecchio metallo arrugginito. Holmes si concentra inizialmente sul documento che Brunton voleva rubare, un vecchio rituale della famiglia Musgrave: tale cerimoniale, apparentemente incomprensibile, è caratterizzato  da una serie di domande e risposte che dovevano essere recitate da ogni maschio della famiglia al raggiungimento della maggiore età.
Rifacendosi in parte a Poe, Conan Doyle struttura il racconto come un indovinello enigmistico. I tanti misteri separati tra loro vengono collegati da Holmes all’interno di una singola catena di eventi: l’investigatore deve "escogitare una specie di filo a cui poterli appendere tutti", quello che Peter Brooks, nel suo Trame, chiama "filo ermeneutico della trama". 
La chiave del mistero è ovviamente il cerimoniale: “bisogna partire dalla metafora apparentemente insensata del rituale e svolgerlo in chiave metonimica”. Qui Holmes affronta un vero problema di trigonometria quando usa le indicazioni del cerimoniale per tracciare un sentiero ideale sul terreno dei Musgrave. Egli ripete sostanzialmente le stesse operazioni di Brunton (e difatti trova una piccola cavità che indica il luogo dove era stato piantato un piolo dal maggiordomo), e ciò fa concludere a Brooks che “il detective deve ripetere le operazioni del suo predecessore, il criminale”. Questa sarebbe (un po’ schematicamente, e banalmente, ma questo è il problema dei teorici della letteratura) la detection.
Questa ripetizione delle azioni conduce così alla soluzione (la scoperta della fabula) e alla cattura del colpevole, Brunton, trovato asfissiato nella cantina dove era stato rinchiuso dalla passionale cameriera. Da tutto ciò Holmes deduce che i pezzi ritrovati in quel sacchetto nei pressi del lago sono in realtà l’oro e i gioielli della corona degli Stuart. Il cerimoniale è quindi una formula mnemonica tramandata dal partito degli Stuart per aiutare un futuro Carlo Stuart  a ritrovare la Corona, nel caso fosse stato in grado di riconquistare il trono. Da qui si arriva al livello più profondo della fabula: il regicidio e la restaurazione, portati alla luce dal fallito tentativo di usurpazione del maggiordomo.



The Adventure of the Reigate Squire (I signorotti di Reigate)

Siamo nel Surrey, dove Holmes e Watson si trovano in vacanza ospiti del colonnello Hayter, vecchio amico del dottore. Durante il soggiorno si verificano però alcuni avvenimenti inaspettati, come il tentativo di furto a casa Acton e l'omicidio di Kirwan, cocchiere della famiglia Cunningham, tutti vicini di casa di Hayter.
In questa interessante ma non completamente riuscita avventura emergono numerosi elementi degni di nota - un Holmes reduce da una indagine massacrante che passa un periodo di convalescenza in campagna, suscitando così la perplessità di alcuni residenti; un piano ingegnoso preparato dal colpevole e una astutissima falsa pista - ma non bastano a colmare le lacune di sceneggiatura, così che alla fine il povero lettore si trova costretto a sentire la spiegazione di Holmes senza avere la più pallida idea di quali siano gli elementi nelle sue mani.

The Adventure of the Crooked Man (L'avventura dell'uomo deforme)

Holmes e Watson sono ad Aldershot ad indagare sulla morte del comandante James Barclay, trovato deceduto nel soggiorno della propria abitazione. I sospetti spingono verso la colpevolezza della moglie, ma Holmes scoverà una verità ben più drammatica e, per certi versi, struggente.
Altro delitto e altro racconto degno di nota di Doyle, grazie soprattutto ad una brillante prima parte. La storia, dalle cadenze bizzarre, si risolve da sola ma ci consegna ugualmente un Holmes in forma smagliante. Resta qualche perplessità (la mancanza di sangue sul bastone, la presenza o meno dello stesso sangue sullo spigolo) ma sono peccati veniali. Il finale riporta brutalmente il male alla sua cocente banalità.

The Adventure of the Resident Patient (Il paziente fisso)

Questo racconto, che inizia con una citazione a Poe ed una lunga deduzione di Holmes che legge nella mente l'evolversi dei pensieri di Watson, è caratterizzato da una prima parte piuttosto godibile, penalizzata però da una seconda del tutto sconclusionata. L'intreccio è poca cosa, ma ciò che è inaccettabile è un Holmes che, senza alcun indizio, indovina lo scioglimento dell'enigma riportando alla luce una storia di rapina vecchia di venti anni.
Sgangherato.

The Adventure of the Greek Interpreter (L'interprete greco)

Un interprete greco è vittima, suo malgrado, di una classica situazione insolita che tanto piace a Doyle: una notte questi viene rapito da un tale privo di scrupoli che lo trasporta in una località sconosciuta per fare da interprete ad un altro greco tenuto in ostaggio.
L'intreccio è prevedibile, ma la prima parte, che vede l'esordio del fratello di Holmes, Mycroft, è spumeggiante. Il Diogenes club, luogo per i fans della misantropia (club in cui il rapporto tra i membri è vietato) e locale preferito da Mycroft, appare davvero meraviglioso!
Nel complesso la storia è un tradizionale esempio di divinatio holmesiana, ma ci si diverte. Peccato per il finale giustizialista.

The Adventure of the Naval Treaty (Il trattato navale)

Un Holmes in grande spolvero risolve brillantemente questo caso di politica internazionale che strizza l'occhio ancora a Poe (La lettera rubata) e si conferma, a distanza di anni, una lettura molto appassionante. Il plot è ben costruito, lineare ma intrigante e privo di errori, con tanti indizi gustosi e un bel piglio narrativo. Peccato che la spiegazione finale non regga il palinsesto della sceneggiatura, ma stilisticamente il racconto è davvero ottimo.

The Final Problem (Il problema finale)

Eccoci qui, dal nulla, a quella che doveva essere l'ultima avventura di Holmes. Non mi stancherò mai di rimanere parzialmente deluso da un racconto che, se allungato e ben strutturato, sarebbe potuto diventare un romanzo straordinario. Invece la celebre e sin troppo abusata sfida Sherlock-Moriarty si risolve in fretta, folgorando ugualmente il lettore con un finale di grande impatto e forza espressiva. 
La situazione iniziale è già in fieri: la lotta tra Holmes e il più geniale dei criminali è ormai agli sgoccioli. Moriarty, filantropo che in realtà gestisce una feroce organizzazione criminale, bracca un Holmes tetro, ansimante e impaurito, ma sempre pieno di spirito.
Non c'è alcun problema deduttivo in quello che è in realtà un grande racconto di suspense, con il lettore incapace di credere ai propri occhi. Grande tensione e gran finale, ma si poteva puntare all'epica pura.