Quando vengono avvicinati nella stessa frase le parole “fondamentale” e “romanzo poliziesco”, il risultato non può che essere S. S. Van Dine, The Canary Murder Case.
Pubblicato nel 1927, è la magistrale affermazione del suo autore come il più geniale del decennio americano, e, come ha ben scritto Piero de Palma, il trionfo della deduzione e dell’erudizione di Philo Vance. La canarina assassinata distrugge ogni record di vendite e diviene in breve tempo il testo modello, un’opera capitale allo stesso livello di un Poe o di un Conan Doyle. Sotto ogni punto di vista, da quello stilistico a quello tecnico, è uno shock.
Abbiamo già parlato mesi fa dell’esordio di Van Dine, il mediocre The Benson Murder Case, maldestramente ideato, appesantito, tristemente invecchiato. La canarina assassinata no. Per quanto i meccanismi sperimentati dall’autore, certi dettagli, la misdirection unita all’acume deduttivo del suo deus ex machina siano stati in seguito riproposti sino allo sfinimento dai suoi imitatori, la macchina letteraria avviata da Van Dine rasenta, per il suo tempo, la perfezione.
E anche in seguito se ci sarebbero stati scrittori più grandi di lui (John Dickson Carr e Ellery Queen), nessuno di loro avrebbe mai potuto pensare di primeggiare se prima non fosse apparso sulla scena letteraria quel bizzarro e meraviglioso dandy che all’anagrafe fa Willard Huntington Wright.
ll cambio di marcia rispetto al romanzo precedente è strabiliante: lo scrittore snellisce le frequenti digressioni del suo Vance, concepisce un’enigma poliziesco finalmente solido, pieno di tasselli complessi ma non complicati, ruotando personaggi del bel mondo newyorkese che appaiono ben strutturati, credibili. E se il rapporto tra Vance e il procuratore distrettuale Markham è ancora stonante, Van Dine si accorge giustamente di dover dare vita propria all’investigazione del suo dandy dilettante, slegandolo dal cordone dell’amico e costringendolo a condurre una indagine personale. Nonostante la densità della prosa, il romanzo si legge ancora con straordinaria leggerezza e gustoso brio, senza pause né momenti di stallo.
La canarina del romanzo è Margaret Odell, una delle più celebri e chiacchierate ballerine del suo tempo, trovata strangolata brutalmente nel proprio appartamento.
Ciò che appare più bizzarro è il modo in cui l’assassino può essere uscito dall’abitazione: non solo la porta d’ingresso è chiusa dall’interno, ma quella laterale del palazzo è come sempre stata sprangata dal portiere, intorno alle 18 di quel pomeriggio.
Quest’ultimo dichiara che la sera del delitto, la canarina è uscita e poi rientrata con un uomo, un suo accompagnatore abituale, Spotswoode. I due sono tornati in tarda serata, lui è rimasto nella casa per una mezz’ora circa e poi è uscito, ha fatto due chiacchiere con il portiere e mentre stava per andarsene ha sentito un urlo della ragazza provenire dalla sua abitazione. Spotswoode e il portiere hanno chiesto cosa fosse successo, ma la canarina ha immediatamente risposto che tutto andava bene, e non dovevano preoccuparsi. Da quel momento nessuno è più entrato o uscito, ma la mattina dopo il cadavere della ballerina stava ad indicare un delitto, apparentemente impossibile.
L’intreccio, che ho qui semplicemente abbozzato, è ben più complesso, pieno di sottili indizi in cui Van Dine dimostra quella raffinatezza cerebrale che in pochi erediteranno.
Il processo deduttivo di Vance, il quale è molto più in difficoltà rispetto all’elementare caso Benson, è di pregevole fattura e rappresenta una delle maggiori innovazioni del testo. Chirurgico, perentorio, privo di quella eccessiva e ridondante fede nei comportamenti umani, Vance è costretto a far fronte anche a indizi materiali e contraddittori come un portagioie scassinato da due persone diverse, ma alla fine riuscirà a dipingere un quadro della vicenda perfetto, privo di sbavature o macchie.
Lo scioglimento del meccanismo della camera chiusa è astuto (deve qualcosa a Edgar Wallace, ma è comunque in anticipo sui tempi), ma sono le altre sue deduzioni a stupire, in particolare quelle che si fondano su dettagli materiali e non psicologici (la posizione del cadavere, i vestiti strappati, il portagioie, il grammofono). Con questo non voglio dire che gli indizi comportamentali siano meno importanti rispetto al solito, perché sarebbe falso. La partita a poker che nel finale servirà a Vance, che si muove sempre per esclusione, a capire chi sia il colpevole, colpisce e sorprende. Benché giochino una partita a Stud (almeno così mi è sembrato), alcune sottigliezze del poker moderno (che non è solo Holdem, ovviamente) vengono abilmente messe in luce dall’autore, anche se non citate, come la polarizzazione o il bluffcatching.
Una partita credibile, dunque, che chiude un romanzo quasi perfetto. Quasi, ovviamente, perché qualche assurdità nel comportamento della polizia, al fine di risaltare le qualità dell'investigatore, è palese, e rimane qualche deduzione forzata a partire dalla psicologia dei personaggi.
Alla fine Vance capirà anche che trucco ha usato l’assassino per uscire dalla stanza chiusa, ma lo farà fortuitamente, per puro caso, aiutato dalla dea bendata e dalla sua passione per la musica classica. In fondo non era stato mica Van Dine a postulare, tra le sue regole, l’impossibilità per il detective di arrivare in modo casuale alla soluzione, o no?
L’assassino, che è il perfetto superuomo vandiniano, deve aver dato più di qualche idea a Woody Allen che ne riprende personalità e movente in Crimini e misfatti(1989) e Match Point (2005).
Nonostante La canarina assassinata non possieda le inebrianti venature bizzarre di un Queen o le manifestazioni di inventiva di un Carr, rimane una pietra miliare e uno dei più riusciti gialli del decennio. Questo non basterà, certamente, a Van Dine, che nelle due successive performance supererà se stesso, con i superlativi The Green Murder Case (1928) e The Bishop Murder Case (1928).