giovedì 17 aprile 2014

The Benson Murder Case (La strana morte del signor Benson, 1926) - S. S. Van Dine





Quando Willard Huntington Wright, vero nome sotto il quale si cela S. S. Van Dine, decide di lasciar perdere la scrittura di un trattato teorico sul poliziesco, preferendo dedicarsi a un ciclo di romanzi, non sa, probabilmente, che sta scrivendo la Storia.
Nel 1926, il poliziesco "moderno", negli Stati Uniti, sostanzialmente non esiste. Ci sono validi artigiani, qualche ragazza più brillante, ma i capolavori, quelli si trovano da un'altra parte.
Nel giro di qualche anno Van Dine "inventa" il genere negli Stati Uniti: Ellery Queen, Rex Stout, Anthony Abbot, Rufus e C. D. King e tanti altri autori americani, cavalcano con successo la sua onda, dando una sferzata decisiva a un genere che, dall'altra parte dell'Oceano, stava ripiegando su stesso, destinato a una breve ma non indolore morte. 
E poi c'è lui, Philo Vance, il più dandy, il più meravigliosamente misantropo, il più geniale di tutti.
Dopo 5 minuti ha già capito chi ha ucciso Benson, e in che modo. Non c'è gusto, così.
Difficile calcolare la portata delle innovazioni di Van Dine, occorrerebbe un trattato. Non mi riferisco ovviamente a quella buffonata delle Venti Regole, ma ai meccanismi, polizieschi, tecnici e retorico-stilistici, che stanno alla base dei suoi romanzi. Non la pensa così Anthony Boucher, forse il più grande dei critici, che in numerosi articoli usciti sul San Francisco Chronicle, ha più volte ridimensionato, con forza, l'importanza storica di Van Dine.
Va detto che oggi, la figura di questo autore è più che mai bistrattata: inverosimile, irreale, freddo, teatrale, antipatico. Roland Lacourbe, nel volume 1001 Chambres Closes, lo definisce pretestuoso e indigesto al lettore contemporaneo, e afferma, in un testo precedente, come sia impossibile vedere i suoi testi ristampati.
Forse in Francia, dato che in Italia, tra Mondadori, Polillo, Rusconi, Newton e Barbera, le case editrici sembrano contendersi le opere dell'autore americano.
La mia opinione è che Van Dine, nel suo breve corpus, abbia davvero cambiato il modo di concepire e pensare il poliziesco. Se certi meccanismi, certe teatralità e alcune situazioni possono apparire oggi eccessivamente caricate, quindi paradossalmente fredde, Van Dine ha insegnato a gestire il plot e i suoi elementi in modo nuovo, ha mirabilmente fuso erudizione e suspense, cultura e tensione narrativa. I suoi romanzi migliori sono trionfi di tecnica, classe e stile. 
Non lo è, nemmeno lontanamente, questo romanzo d'esordio.
Incomprensibilmente definito "il primo e il migliore", da Barzun e Taylor, è in realtà il più noioso, fastidioso e maledettamente lento romanzo dell'autore. Costruito dignitosamente dal punto di vista dell'intreccio (anche se la trama resta poca cosa), frana in una suspense che evapora dopo due capitoli, in una storia priva di verve, di spunti e di sprazzi d'autore. Perché? 
Perché non fa altro che seguire pedissequamente le sue famose Venti Regole. Così quello che resta, sono una magra e agonizzante storia poliziesca, qualche personaggio tristemente abbozzato e una totale mancanza di descrizioni e atmosfera. Non fosse per le meravigliose digressioni di Vance, riguardo i più disparati argomenti del globo, dal golf alla medicina, dalla logica alla craniologia all'architettura, si fatica ad arrivare alla fine.
Modellato su Lord Peter Wimsey, Vance è l'anti-Holmes per eccellenza: preferisce le buone maniere alla giustizia, cita Terenzio in latino e Goethe in tedesco, usa locuzioni italiane, sa fare ogni cosa immaginabile, anche dire "se lo sarà meritato!", riferendosi al cadavere, dopo averlo visto per la prima volta. «La verità può essere raggiunta solo attraverso una analisi dei fattori psicologici implicati in un crimine e riferiti ad un singolo individuo. Le sole vere prove sono psicologiche, non materiali.» Questa sferzata di metodo, che porta alle estreme conseguenze quelli di Poirot e Rouletabille, è un altro fondamentale apporto dell'investigatore-dandy, che ci invita per la prima volta ad affrontare un delitto, parole sue, non come se fosse stato concepito da un semi-idiota.
Ma sprazzi di humor caustico non bastano a sopperire a una narrazione lenta e soporifera. 
Per fortuna Van Dine, o il suo inconscio, si renderà presto conto dei limiti di questo acerbo, freddo e calcolato romanzo. "Abbiamo scherzato - disse - ora iniziano i capolavori".
Per fortuna.
In Italia è famoso in quanto inaugura i Libri Gialli Mondadori, nel 1929. Ma è stato più volte ritradotto nel corso del tempo. Le migliori restano quelle di Pietro Ferrari.

2 commenti:

  1. Condivido appieno la tua disamina; anche per me questo romanzo è assolutamente sopravvalutato, e la sua fama è del tutto esagerata; non c'è assolutamente confronto con i due capolavori successivi (specialmente con la fine dei Greene, per me il capolavoro assoluto del giallo Americano) e anche gli ultimi bistrattati romanzi dell'autore, pur se con un intreccio abbastanza scadente, sono perlomeno più briosi e leggibili di questo esordio.

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  2. Boncompagni, nello speciale del giallo Mondadori 69, in cui ci sono anche Tragedia in casa Coe e I quattro giusti, scrive: "Oggi va di moda parlare di Van Dine, dei suoi manierismi espressivi e dell'atmosfera di artificiosità che pervade molti dei suoi libri". Questo rigetto critico contemporaneo lo trovo sinceramente imbarazzante.
    Ti assicuro che sono molti i critici, sia europei che americani, che gettano fango su un autore che, personalmente, ritengo fondamentale.
    Senza di lui gli americani avrebbe iniziato a scrivere qualcosa di decente nel secondo dopoguerra. Forse.

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