Se autori come Van Dine o Berkeley hanno mostrato i limiti del whodunit allo stato puro, la sua formula base è ancora vivissima, come ha scritto Barnard qualche anno fa. Non occorrono necessariamente delitti impossibili o camere chiuse: basta una certa attenzione all'enigma, un palinsesto narrativo ben architettato, un'ambientazione tipica, un investigatore accattivante, un'astuta disseminazione di indizi nel corso del romanzo ed una spiegazione finale che sia soddisfacente. I grandi insegnamenti degli autori di mystery continuano ad essere fondamentali anche per chi scrive thriller, noir o qualunque altra ramificazione del poliziesco.
Poi ci sono quegli autori che, più di altri, desiderano attingere completamente ai modelli classici, spesso con intento parodico.
Dopo la fortunata serie del BarLume, nel 2011 Marco Malvaldi decide che è ora di confrontarsi con il giallo classico, con l'intento di divertirsi e divertire. D'altronde, una volta famoso, puoi permetterti di scrivere ogni cosa. Sceglie inizialmente di ambientarlo nella placida Inghilterra di fine '800, poi cambia idea, vista la poca originalità, e opta per la verdeggiante Toscana del medesimo periodo.
Un venerdì di giugno del 1895, in un castello della maremma, si presenta un personaggio bizzarro, il baffuto Pellegrino Artusi, celebre cuoco ed autore di La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, primo manuale di cucina a varcare i confini regionali e contribuire all'unificazione del nostro paese. L'Artusi è ospite della famiglia del barone Romualdo Bonaiuti, proprio come il signor Ciceri, fotografo. Anche se nessuno sa per quale motivo sono stati invitati, i due si aggiungono al variegato gruppo familiare: ci sono due figli maschi, uno, Gaddo, spiantato poetastro con l'idolatria per Carducci, l'altro, Lapo, dedito alle donne e ai divertimenti; una figlia femmina, Cecilia, l'unica che sembra dotata di cervello pensante; ci sono poi la vecchia baronessa megera, che da buon stereotipo sembra odiare tutto e tutti, una dama di compagnia e due sorelle zitelle. Il soleggiato clima vacanziero e nobiliare si spegne quando il maggiordomo Teodoro viene ritrovato morto. In una stanza chiusa dall'interno. A risolvere l'enigma sarà proprio l'Artusi, vendicandosi così di un'accoglienza a dir poco spiacevole.
Gli elementi per una parodia del genere ci sono tutti: un variegato ma ristretto numero di personaggi dediti alla nullafacenza riuniti dentro a un castello, un investigatore carismatico ma dai tratti bizzarri, un delitto apparentemente impossibile ma dalla spiegazione razionale. Poi c'è l'indagine, con indizi, interrogatori e quant'altro.
Malvaldi scrive bene: nella prima parte mostra garbo, ironia, padronanza della lingua e piglio narrativo. Poi, purtroppo, il ritmo inizia a tendere al soporifero e i personaggi, una volta esauriti i loro momenti più divertenti, si mostrano nella loro nuda e imbarazzante piattezza. Consumato il delitto, la storia smette di avere alcun interesse, sino ad una soluzione che non stupisce.
Insomma, dal punto di vista tecnico-poliziesco, il romanzo non convince: l'intreccio è pieno di luoghi comuni, l'esposizione narrativa lenta e pesante, la spiegazione inaccettabile (un espediente del genere avrebbe fatto infuriare pure il peggior Wallace). La prima parte è anche godibile, frizzante e gustosa, pur muovendosi all'interno di strutture e situazioni viste e riviste, ma naufraga irrimediabilmente in una seconda che mostra troppa approssimazione.
Per gli addetti ai lavori, questo romanzo è "alla Agatha Christie". Si parla a sproposito di leggerezza per mascherare una evidente mancanza di tensione narrativa. Bastano un castello, dei nobili, un delitto e un investigatore per riproporre un esempio (o una parodia) del poliziesco "all'inglese"? Qualcuno ha mai letto veramente Agatha Christie?
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