Anthony Berkeley, tra i più importanti ed innovativi autori britannici della Golden Age, esordisce con questo romanzo, nel 1925. Pubblicato in maniera del tutto estemporanea, principalmente come regalo per il padre, appassionato lettore di polizieschi, vede anche la prima apparizione del bizzarro Roger Sheringam, protagonista della maggior parte dei romanzi dell'autore.
Come il libro di Malvaldi, di cui abbiamo appena parlato, anche questo è un testo sostanzialmente parodico: Berkeley si prende giustamente poco sul serio e gioca con gli stereotipi e le macchiette del genere, sul modello del Trent's Last Case (La vedova del miliardario, 1913) di Bentley.
Già dal titolo, che fa il verso a Christie (Styles Court), ci immergiamo nelle placide e apparentemente sonnolente campagne inglesi: il ricco Victor Stanworth ha invitato a Layton Court, una residenza di campagna da lui presa in affitto, un ristretto numero di ospiti, fra cui lo scrittore Roger Sheringham. Il tranquillo svolgimento della vacanza viene interrotto quando, un mattino, all'interno della biblioteca viene ritrovato il corpo di Stanworth, ucciso da un colpo di pistola alla fronte. Tutto sembra indicare la strada del suicidio: la stanza è ermeticamente chiusa dall'interno e l'uomo ha firmato un biglietto in cui dichiara di volersi uccidere, senza spiegarne i motivi. Roger Sheringham non è convinto e decide di condurre in autonomia l'indagine. Ad aiutarlo ci sarà l'amico Alec Grierson, un Watson apparentemente più burbero e ritroso che non mancherà di sorprendere.
Se le situazioni e gli ambienti sono quelle del poliziesco del tempo, Berkeley apporta una novità fondamentale nella figura del detective: «ho cercato di fare in modo che l'investigatore a cui è domandato il compito di risolvere il mistero si comporti come ci si potrebbe aspettare nella vita reale […] lui non è per nulla una sfinge e, di tanto in tanto, commette qualche errore. Non ho mai creduto in quei segugi aristocratici dall'occhio di falco e dalla bocca sdegnosa che proseguono nel loro silenzioso e inesorabile cammino verso il cuore delle cose senza mai sbilanciarsi o correggersi dopo aver seguito false mete».
Questo scrive Berkeley nella dedica iniziale al padre, senza risparmiare una frecciata a Lord Peter Wimsey, che aveva esordito giusto due anni prima nella delicata penna di Dorothy Sayers. Sheringam, infatti, è tutt'altro che un lord: rozzo, villano, logorroico e impiccione, non brilla per infallibilità e nemmeno per modestia; anzi è presuntuoso oltre ogni limite, cosa che spesso lo porterà a figure ben poco eleganti. Sono almeno due gli errori madornali che compie durante l'indagine, che coincidono, non a caso, con i momenti più genuinamente divertenti dell'intero romanzo. Purtroppo negli anni a seguire Sheringam perderà un po' di questa verve, avvicinandosi a modelli più tipici.
Berkeley è anche un grande sostenitore del fair-play: «ho elencato scrupolosamente ogni più piccolo indizio nel momento stesso in cui veniva scoperto, così che il lettore potesse avere a sua disposizione esattamente gli stessi dati dell'investigatore. Questo mi sembra l'unico modo corretto per costruire un giallo», scrive. Non a caso sarà uno dei fondatori del Detection Club, che imponeva ai soci l'assoluto rispetto nei confronti del lettore.
L'autore non tradisce i suoi propositi e concepisce gran parte dell'opera come una meticolosa indagine sul campo: la ricerca di indizi e impronte, le scoperte sorprendenti, gli interrogatori che culminano nelle deduzioni giuste e in quelle sbagliate. Berkeley non tralascia nulla, anche se proprio questo rende alcune fasi eccessivamente lente e malamente allungate, in particolare quelle in cui Roger e Alec chiacchierano esaustivamente sulla vicenda, aggiungendo però quasi nulla all'intreccio.
Una certa prolissità, derivante da una comprensibile immaturità letteraria, e qualche colpo di scena in meno del previsto finiscono per appesantire la narrazione ed evidenziano i limiti di un divertissement che si comporta troppo da whodunit, confermandone pregi e difetti. La camera chiusa occupa uno spazio ridotto, con una spiegazione meccanicistica che aggiunge poco al repertorio, ma Berkeley si concentra soprattutto sulla detection, che sostiene un intreccio ben costruito, e sulla soluzione, davvero sorprendente, che ben conclude i paragoni col modello di Bentley. Il metodo investigativo rimane ancora troppo legato ad un retaggio Holmesiano: pochi interrogatori, poca verve dialettica e troppa ricerca di dati ed indizi fisici, che in un romanzo, rispetto al racconto, dilatano pericolosamente alcuni momenti chiave.
I momenti più interessanti rimangono i tonfi deduttivi di Sheringam e alcuni battibecchi tra i protagonisti, ma anche questa indagine completamente in "tempo reale" nel complesso convince. Non mancano le ingenuità (un suicidio con un colpo sparato in piena fronte, siamo seri?) e qualche inverosimiglianza di troppo, oltre ad alcuni passaggi antisemiti che hanno contribuito all'invecchiamento inevitabile di certe situazioni letterarie. Nel finale emerge anche il tipico tema della giustizia personale applicata dall'investigatore, che in seguito sarà al centro di qualche controversa critica.
L'esordio di Berkeley promette bene, dunque, ma è ben lontano dall'essere un capolavoro. Ma occorrerà aspettare poco tempo.
Pubblicato nei Classici del Giallo 958 del 2003 con la splendida traduzione di Boncompagni, da poco è stato ristampato dalla Polillo (con titolo Uno sparo in biblioteca), che ha stranamente optato per una ritraduzione.