Mystery at Friar's Pardon è il primo dei tre romanzi firmati Martin Porlock, uno dei tanti pseudonimi usati dal grandissimo scrittore Britannico Philip MacDonald. Il romanzo fu originariamente pubblicato nel 1931, ed è usualmente considerato uno dei capolavori dell'autore. Io, nonostante ami moltissimo MacDonald come narratore, devo dire di avere un'opinione completamente differente.
Il testo introduce la figura ricorrente di Charles Fox-Brown: orfano sin dall'età di tredici anni, si arruola per combattere durante la Prima Guerra Mondiale e riesce a fare velocemente carriera. Una volta terminato il conflitto, inizia a lavorare come gestore e amministratore di proprietà. Ed è proprio questo il compito che gli affida l'eccentrica Enid-Lester-Green, scrittrice di successo, che ha di recente acquistato la bellissima Friar's Pardon, una country-house dal passato fosco. Si dice infatti sia stata teatro di morti misteriose e inquietanti, con i proprietari trovati annegati sempre nella medesima stanza totalmente priva di acqua, sia sui vestiti sia sugli arredi. Ma la scrittrice non ha alcuna intenzione di stare a sentire queste voci, e decide di adibire propria la stanza della morte a studiolo in cui lavorare. Ben presto strani avvenimenti iniziano a turbare la tranquilla e serena vita di campagna, tra oggetti che scompaiono, mani che si librano da sole nell'aria e rumori sinistri. Che si aggiri forse un fantasma capace di attraversare i muri? Quando la padrona di casa viene trovata morta annegata in una stanza sigillata dall'interno ma totalmente priva d'acqua, qualcuno inizia sul serio a pensare al sovrannaturale.
Le premesse per un capolavoro ci sono tutte. C'è una casa infestata dai fantasmi, una forte attrazione per l'occulto e il sovrannaturale, un'atmosfera da incubo e una elettrizzante, almeno in teoria, seduta spiritica finale. Tutto questo mostra come i grandi classici della Golden Age siano tutt'altro che romanzi scritti per soddisfare meramente l'intelletto, ma siano pesantemente attraversati dalla spossessante forza del fantastico.
Se le intenzioni sono grandiose, però, MacDonald non azzecca sostanzialmente niente. Dopo un prologo ben scritto, il ritmo inizia a bordeggiare tra il lento e il soporifero, con l'autore che impiega quasi 150 pagine per caratterizzare atmosfera e personaggi senza riuscirci. È tutto troppo verboso, superficiale e accademico per attrarre davvero il lettore, che viene degnato del delitto solo a metà romanzo. E anche quando arriva, il ritmo non cresce, la detection è piena di prolissità, il colpevole diviene alla fine facilmente intuibile e la 'finta' seduta spiritica di chiusura sfiora il ridicolo. I personaggi, inoltre, per quanto l'autore si sforzi, non convincono e rimangono tutti in superficie, la polizia fa una figura imbarazzante e il deus-ex-machina Fox-Brown è una pallida copia dei buoni detective creati dall'autore.
La nota dolente coinvolge anche la camera chiusa, all'apparenza estremamente intrigante. MacDonald ostenta la 'non-naturalità' del delitto, ma per risolverlo ricorre ad un vecchio trucco già usato anni prima da Edgar Wallace e che due anni dopo userà anche Van Dine. Preso nel suo complesso, questo trucco è puramente 'meccanicistico' e delude. Ed è, purtroppo, la ciliegina sulla torta di uno dei più frastornanti insuccessi firmati dal sempre grande Philip MacDonald.
È stato pubblicato in Italia da Polillo col titolo La villa dei delitti.