giovedì 31 luglio 2014

Six Crimes Sans Assassin (Sei delitti senza assassino, 1939) - Pierre Boileau





Pierre Boileau, nato a Parigi nel 1889, è stato uno dei grandissimi rappresentanti della Golden Age del polar, il romanzo poliziesco francese. In Italia è ricordato quasi esclusivamente per gli scritti in coppia con Narcejac (La donna che visse due volte, I diabolici, Il quarto colpo), ma nel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali ha pubblicato romanzi di straordinario virtuosismo tecnico, sempre caratterizzati da delitti impossibili e camere chiuse. Questi vedono protagonista il detective André Brunel, personaggio apparso per la prima volta nel racconto Duex Hommes sue Une Piste, nel 1932.
Questo Sei delitti senza assassino, del 1939, è ritenuto unanimemente il suo capolavoro, il punto di arrivo di una carriera in crescendo. Tra gli appassionati di delitti impossibili questo romanzo è avvolto da un alone mitologico: il grande Roland Lacourbe, che lo ha inserito tra i suoi 10 preferiti di sempre, lo definisce, nel recente1001 Chambres Closes, "une magnifique réussite! […] Tout y est exemplaire: l’excellence de la construction dramatique, la maîtrise parfaite du récit, la rigueur presque mathématique d’une intrigue construite comme un mouvement d’horlogerie, avec une logique interne inattaquable".
Io credo che Sei delitti senza assassino sia anche qualcosa in più. 
La storia ruota attorno ad una tragedia che colpisce il gruppo familiare dei Vigneray. Simone Vigneray, moglie di Marcel, un giorno d'inverno si affaccia disperatamente alla finestra del proprio condominio reclamando aiuto. Si odono rumori di lotta e colpi di pistola, ma quando il portiere dello stabile riesce ad aprire la porta con il proprio passe-partout trova Marcel morto, ucciso da un colpo di pistola, e Simone agonizzante. Manca l’assassino: la porta della casa era stata sempre tenuta sotto osservazione dal portiere e da gente accorsa sul posto, le finestre si trovano ad una altezza eccessiva e l’unica via di fuga, la porta che dà sulla scala di servizio, è chiusa dall’interno con un catenaccio. 
Da questo momento in poi, quello che si abbatte sulla famiglia è un autentico massacro. Prima viene trovato il cadavere della cameriera dei Vigneray, Adèle, rinvenuta in una stanza che era stata tenuta sotto osservazione costantemente; poi è la volta di Julien, marito di Adèle, maggiordomo di famiglia, che si trova a Le Mans, nella casa di campagna dei Vigneray. L’uomo, avvertito dalla polizia del pericolo che stava correndo, ha deciso di barricarsi in uno studio della casa, ma non è bastato. Ucciso da un colpo di pistola e morto dopo un’ora di lenta agonia, viene trovato nella stanza in cui si era rinchiuso, con una pesante scrivania posta davanti alla porta d’ingresso, leggermente scalfita da alcuni colpi, che però non sono stati capaci a creare alcun foro. Come ha fatto quindi l’assassino?
Brunel, chiamato ad investigare anche perché amico delle vittime, scopre la presenza un possibile ricattatore: Vigneray aveva pagato cospicue somme di denaro a tale Alfred Rupart. La casa di quest’ultimo viene tenuta sotto osservazione, fino a quando il socio di Brunel, che è anche il narratore della storia, ode la conversazione tra l’uomo e un altro personaggio: i due si danno appuntamento in una villa alle porte di Parigi. Brunel, l’amico e Roland Charasse, avvocato e cugino di Vigneray, si recano al luogo dell’appuntamento per sorvegliare la casa: nessuno entra e nessuno esce, ma dopo alcuni colpi di pistola uditi all’interno della casa, i tre trovano solo il cadavere di Rupart. 
Per completare il teatrale piano dell’assassino manca un ultimo tassello: uccidere Roland Charasse. Morirà anche lui, in una stanza chiusa dall’interno, e sorvegliata, ovviamente. Sei delitti, senza assassino.



Superbamente costruito dal punto di vista dell’intreccio, questo romanzo rappresenta uno dei più arditi tentativi di ideare un problema poliziesco servendosi esclusivamente di situazioni impossibili. 
Boileau, come ha giustamente scritto Piero de Palma nel suo blog, sembra rigettare completamente le fondamenta del giallo anglosassone: non ci sono indizi, prove materiali, interrogatori; non esiste alcun apparato investigativo né detection, nessuno fa accenni al movente o agli alibi. Boileau, spavaldamente, si affida alla logica pura. 
E’ difficile trovare un altro poliziesco del tempo in cui individuare l’assassino sia così facile: la sua identità, benché l’autore cerchi di celarla in qualche modo, non è mai davvero in dubbio, e questo appare strano, quasi assurdo. Ma forse a Boileau questo interessa poco, egli ha a cuore il modus operandi dell’assassino invisibile, capace di uccidere senza mai lasciare alcun tipo di traccia, alcun indizio materiale. Brunel si chiuderà in casa, a riflettere. Non c’è altra via per capire, quando non esistono appigli: occorre affidarsi al puro ragionamento. 
E se l’ultimo delitto e quello di Rupart, una volta individuato l’assassino, sono immediati da comprendere, il primo e quello del maggiordomo sono semplicemente geniali. L’omicidio che apre il romanzo è strabiliante, e da solo vale il prezzo del biglietto. L’apparizione/sparizione della cameriera invece presenta almeno un paio di imperfezioni (fisiche, soprattutto) ma sono dettagli che non scalfiscono l’eccellenza del plot.
Tuttavia questo romanzo, come detto sopra, è qualcosa in più di un semplice trionfo di tecnica poliziesca. Non è un whodunit puro, nonostante la brevità di una storia incentrata esclusivamente sugli avvenimenti delittuosi. C’è qualcosa di ipnotico nella prosa di Boileau: non c’è la suspense di Steeman, l’atmosfera di Leblanc o la prepotenza di Leroux, ma vi è una tensione narrativa disturbante, apparentemente sottile ma dotata di forza magnetica. Non c’è traccia della guerra, ma c’è un senso di desolante cupezza nella vuota Parigi, nei suoi personaggi malati, agitati, che continuamente rabbrividiscono di fronte al germe del fallimento. Si respira un terrificante senso di morte in un romanzo narrato in punta di piedi, senza asprezze, accelerate o stridori, che passa dal passato al presente nel modo più inaspettato, in alcune delle pagine finali più belle mai scritte dall’autore francese. Sei delitti senza assassino è uno struggente e crepuscolare capolavoro di umanità, che rapisce e inquieta. 

mercoledì 23 luglio 2014

Stiamo perdendo la memoria storica: Intervista a Jeffery Deaver

Deaver, tra i più famosi autori contemporanei di thriller, torna in libreria con October List, edito da Rizzoli. La stampa italiana gli dedica svariate interviste in questo periodo: ieri ne ho letta una sul Resto del Carlino, oggi sul sito della Gazzetta dello Sport.
Deaver parla del suo nuovo romanzo, concepito come una inverted story, che parte dalla fine e termina con l'inizio. Ma come risponde il buon Deaver quando gli chiedono dei modelli letterari, o delle fonti a cui ha attinto per un'idea tanto rivoluzionaria?
Testualmente: "il musical Merrily we roll along di Sondheim, film come Memento di Nolan o Pulp Fiction di Tarantino". 
Bene. Peccato che l'inverted story nel poliziesco sia qualcosa di antico, inventata da Freeman a inizio 900 e utilizzata, negli anni, e in maniera decisamente superiore a Deaver, da tutti i grandi maestri, da Philip MacDonald a Charles D. King. 
Il problema è duplice: da una parte gli scrittori contemporanei si permettono di copiare a destra e sinistra impunemente - James Patterson con Mastermind, ad esempio - e dall'altra fingono di non conoscere le basi del genere letterario a cui stanno tentando di fornire un apporto. Ma ancora peggio è quando non hanno idea di chi ci sia stato prima di loro.
Quando Deaver, nel corso dell'intervista alla Gazzetta, dice: "Se pensate di avere una buona trama, studiate i migliori". Ottimo. Peccato che i nomi siano Hammett, Simenon e Camilleri. Autori di prim'ordine certo, ma veramente vengono citati per la bellezza dei loro intrecci? Sono questi gli autori di cui Deaver si nutre per le proprie trame? Auguri.
Il secondo problema, che è ancora peggiore, è lo stesso di cui parlavo tempo fa: chi legge non ha più una memoria storica. E grida al capolavoro alla prima immondizia copiata che si trova a leggere. Ancora meglio se in copertina cartonata a 20-25 euro.

Questo il link all'intervista citata: http://www.gazzetta.it/Sportlife/Tempo-Libero/22-07-2014/letteratura-jefferey-deaver-racconta-october-list-giallo-rovescio-801316574743.shtml

sabato 19 luglio 2014

The Nine Tailors (Il segreto delle campane, 1934) - Dorothy L. Sayers



Il più alto tentativo di inserire un raffinato enigma poliziesco all'interno di un'opera di costume coincide con uno dei maggiori romanzi dell'intero 900 britannico. Dorothy L. Sayers è sempre più lontana in questi anni dal semplice enigma deduttivo formale, attratta invece dal mondo della comedy of manners applicata al genere letterario che l'aveva consacrata. Inserita convenzionalmente insieme a Christie, Marsh e Allingham nel gruppo delle Crime Queens, è in realtà un'autrice dalle larghe sfaccettature, dotata di uno stile unico e ineguagliabile. 
Lord Peter Wimsey e il fedele Bunter sono in viaggio quando, l'antivigilia di capodanno e nel mezzo di una bufera, la loro macchina finisce in un fosso e sono costretti a continuare a piedi. Arrivano nel piccolo paesino adiacente di Fenchurch ST. Paul, nella grande e desolata pianura dei Fens, dove la Sayers aveva passato l'infanzia. Qui Wimsey incontra il rettore della chiesa Venables, il quale lo aiuta a trovare riparo, anche grazie alla moglie. Fenchurch St. Paul è famoso per l'antica chiesa e i meravigliosi concerti delle otto campane presenti nell'altissima torre. La notte di capodanno Wimsey si dimostrerà anche un ottimo campanaro, sostituendo egregiamente l'ammalato Will Thoday.
Qualche tempo dopo, nel piccolo cimitero adiacente alla Chiesa, dentro la tomba di un altro defunto (aperta per seppellire la moglie di questi, morta a causa di una terribile influenza che dilagava in quella zona), viene ritrovato il cadavere di un uomo, morto circa quattro mesi prima, con le mani mozzate e con il volto sfigurato. A causa della mancanza di ferite nessuno riesce a comprendere le cause della morte, ma soprattutto nessuno nel villaggio ha idea di chi sia la vittima. Venables decide così di chiamare ad indagare Lord Peter, ma anche per lui sarà molto difficile venire a capo del mistero. 
Grandioso affresco della vita da villaggio del tempo, spossata da forti sprazzi di inquietudine religiosa, pieno di digressioni, dalla campanologia alle maree, e minuziose descrizioni d'ambiente, in cui la Sayers mette la propria magnificente cultura al servizio dell'opera, per un risultato meravigliosamente evocativo e sontuosamente letterario. Una commedia umana che non rinuncia allo humor, alle tinte aspre e alle scene forti, che si apre e termina ciclicamente con le feste natalizie. Se da una parte i personaggi sono memorabili e il finale di estrema cupezza, dall'altra la Sayers regala un intreccio poliziesco tecnicamente eccellente, sorretto da abili indizi e gestito con sapienza. La soluzione, infine, è ingegnosa e sorprendente.
Immerso in un clima alla Austen, il lettore spesso dimentica di trovarsi all'interno di un romanzo poliziesco, e si limita a godere di una dolce narrazione di straordinaria densità, ma nello stesso tempo eccitante e appassionante.
Se la perfezione non esiste, Miss Sayers si è avvicinata molto. Inserito giustamente in tutte le liste dei più grandi gialli di sempre, Il segreto delle campane è sempre disponibile  nella splendida traduzione di Francavilla. Peccato per il titolo italiano, che non ha nulla a che fare con quello originale.

sabato 12 luglio 2014

Il Canone Holmesiano - Parte 1


Gli scritti di Sir Arthur Conan Doyle con protagonisti Sherlock Holmes e il dottor Watson sono di gran lunga il prodotto più importante in lingua inglese per la narrativa poliziesca prima del periodo Golden Age. Ovviamente è piuttosto scontato che senza i trionfi di Dupin firmati Edgar Allan Poe Holmes difficilmente sarebbe nato. Per quanto si sforzi sin da subito di minimizzare la figura del francese - e quindi quella del suo creatore - Conan Doyle deve sostanzialmente tutto al suo Maestro. 
Ma, nonostante tutto, la distanza che separa i due autori è enorme. I trionfi deduttivi di Dupin e la fluidità dei suoi ragionamenti sono qualcosa di inarrivabile se confrontati alle banali abduzioni - o induzioni, o quello che si vuole - di Holmes, il cui margine di errore non esiste solamente perché il suo mondo è ipercodificato e perciò privo di macchie. Conan Doyle è un buon costruttore di enigmi, le sue trame sono ancora piacevoli, ma questo non rappresenta di certo il suo punto di forza. Egli è soprattutto un sublime narratore, capace di muoversi egregiamente nei meandri di vari generi letterari - i suoi racconti dell'orrore sono dei gioielli - e abile nel rendere godibile anche la lista della spesa. 
Negli anni la critica, spesso non trovando le parole per descriverne l'immensa fortuna, ha cercato di schernirne la prosa, definendola mediocre e studiando paragoni arditi. Pensiamo a Gramsci, ma ancora a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che in suo breve saggio lo paragonò a Chesterton. Con ovvi risultati.
Il creatore di Holmes è invece un eccellente narratore; le sue storie sono "avventure", non esercizi di raziocinio, piene di pathos, espedienti sensazionalistici e grande ritmo. Conan Doyle dà il meglio di sé quando si libera dei panni del giallista, quando regala storie commoventi come quella di Uno studio in rosso oppure quando riesce a ricreare ambienti e situazioni con insuperabile maestria.
Se c'è una cosa che sorprende è la qualità media delle sue storie, sempre vive e palpitanti. Quest'uomo non va certo letto solamente come un autore di polizieschi, altrimenti se ne farebbe un torto.
Il corpus holmesiano è conosciuto da tutti: 4 romanzi e 56 racconti, tutti comparsi sullo Strand Magazine. Un'opera grandiosa, che cercherò di esporre come segue, dividendola in diverse parti.



A Study in Scarlet (Uno studio in rosso, 1887)

Il primo romanzo pubblicato da Conan Doyle nel 1887 è generalmente considerato con un'opera minore. Si tende spesso a definirla una sorta di esperimento, con tanto di introduzione dei personaggi principali, per le prove maggiormente riuscite: The Sign of the Four (Il segno dei quattro, 1890) e soprattutto i primi racconti. In realtà Uno studio in rosso è tutt'altro che un romanzo mal riuscito. Si tende eccessivamente a concentrarsi sullo sbilanciamento strutturale caratterizzato da due parti troppo slegate e troppo diverse. Per certi versi questo è corretto: tutti sanno che la prima parte è dedicata alla storia poliziesca, al delitto e all'indagine di Holmes, mentre la seconda è caratterizzata da un'avventura tra i mormoni che spiega il movente dell'assassinio. 
Ma nonostante questo la storia coinvolge, appassiona. Non certo la fase poliziesca, rozza e convenzionale anche al tempo, che interessa solo per la descrizione di Holmes e delle sue idiosincrasie. L'enigma è piuttosto banale e poco interessa chi ha ucciso la vittima e per quale motivo ha scritto la parola Rache sul muro con del sangue. La soluzione di tutto, infine, è debole e la detection di Holmes esageratamente rapida. Non che sia sgradevole, ma la seconda parte è decisamente più convincente: la storia che mostra le pieghe di un uomo in cerca di vendetta e giustizia è a tratti commovente e l'autore, libero da vincoli tecnici e deduttivi, esprime tutto il suo talento narrativo. 
In definitiva, a mio parere, l'esordio è positivo e promettente, anche perché la storia poliziesca resta poco più lunga di un racconto. Il problema sorge nel momento in cui Conan Doyle decide di costruire un palinsesto romanzesco meglio strutturato e non diviso in due parti: ne verrà fuori quel mezzo disastro che è Il segno dei quattro.




The Sign of the Four (Il segno dei quattro, 1890)

Chi ha letto questo romanzo sa bene quanto l'intreccio sia più elaborato, quanto i personaggi siano meglio delineati e, in generale, quanto l'autore cerchi insistentemente di alzare l'asticella qualitativa rispetto all'opera precedente. Ma questo romanzo, considerato dai fan tra i migliori Holmes di sempre, è a mio parere uno dei più deboli dell'intero canone. 
I primi capitoli, però, colpiscono: la discussione tra Watson e Holmes sul tema della droga, di cui l'investigatore fa uso nei momenti di stallo intellettuale ("aborro la monotonia dell'esistenza", dice) è interessante, così come è divertente l'accenno alle svariate monografie scritte da Holmes sui temi più assurdi. 
Ma nel complesso è in questo romanzo che tutti i limiti - enormi - dell'autore in campo giallistico vengono fuori: Conan Doyle allunga disperatamente la storia per cercare di renderla complessa ma non fa altro che insistere su situazioni ed espedienti inutili, in modo da far evaporare ben presto qualsiasi tensione narrativa. La storia d'amore tra Watson e Mary (con tanto dichiarazione finale) è francamente indigeribile, ma anche i valori morali espressi dai cattivi di turno mostrano crudamente tutta la loro inverosimiglianza. A ciò si aggiungono una ottusità della polizia che farebbe diventare un genio persino Japp e una quantità di situazioni che nei racconti sarebbero assenti (gli interrogatori di Watson, Holmes che aspetta notizie dai suoi "irregolari" etc). L'intera scena della caccia sulle acque è soporifera, e il finale non sorprende più nessuno.
Nonostante Conan Doyle insista sui temi prediletti - il viaggio alla scoperta di un tesoro di grande valore - il risultato è a dir poco pesante. Ma imparerà presto dagli errori, pronto al periodo più felice e fecondo del canone holmesiano.

venerdì 4 luglio 2014

99 Chambres Closes - a cura di Roland Lacourbe (1991)




Gli appassionati di Delitti Impossibili e Camere Chiuse sanno bene quante opere critiche siano state scritte sul tema. La Bibbia Anglosassone è ovviamente il testo edito nel 1991 da Robert Adey, Locked Room Murders, opera compilativa che cita – con relativi problema e soluzione – oltre 2000 impossible crimes, tra romanzi e racconti, oltre ad una lunga introduzione che rappresenta ancora oggi una fondamentale panoramica del genere. Il grosso problema dell'opera – di cui era conscio anche Adey – è la mancanza sostanziale di opere francesi, che invece hanno fornito – e continuano a fornire – esempi straordinari. Perciò appare fondamentale il contributo che a partire dagli anni Novanta hanno apportato il francese Roland Lacourbe e gli studiosi belgi Soupart, Fooz e Bourgeois. Lacourbe ha pubblicato la prima opera critica nel 1991 – 99 Chambres Closes – mentre nel 2007 è uscito l'eccellente Mysterès à Huis Clos e tra il 2013 e 2014 i due volumi, già citati negli articoli precedenti, 1001 Chambres Closes. In tutti e tre i testi gli autori cercano di fornire al lettore una sorta di bibliografia di riferimento, una tabella dei più importanti romanzi e racconti mai scritti.
In 99 Chambres Closes, dopo una introduzione a cura di Adey, Lacourbe si sforza di creare una lista di romanzi – che vengono analizzati, e questo rappresenta il vero plus rispetto alle opere precedenti – il più possibile omogenea, tenendo fuori però John Dickson Carr. La scelta è ovviamente condivisibile: inserire l'autore americano vorrebbe dire creare un profondo sbilanciamento, perché per prolificità e qualità nessuno può mai essere paragonato all'americano. 
Se andiamo a analizzare la lista nei dettagli, vediamo come la maggior parte delle opere citate è però piuttosto marginale. Questo è dimostrato dal fatto che, nella lista successiva, quella del 2007 – in cui sono inseriti sia Carr che Halter – la maggior parte dei romanzi citati in questo 99 Chambres Closes sono assenti. In pratica questo testo racchiude tanti romanzi minori, di tantissimi autori diversi, che nel recente 1001 Chambres Closes sono valutati in modo alquanto dispregiativo: Eberhart (Hunting's End, 1930), Mona Gloria (L'énigme de la chambre close, 1938), Freeman (The Jacob Street Murder, 1942), Wallace (The Clue of the New Pin, 1923) etc. Per non parlare dei romanzi citati nei capitoli 33 autres curiosités e dernière minute.
Per questo motivo io ritengo che il vero motivo di interesse dell'opera risieda nei paragrafi in cui Lacourbe e Adey indicano i loro romanzi preferiti. Entrambi, evitando ogni opera di Carr, citano solo veri capolavori: Lacourbe con Alan Thomas, Vindry, James Roland, Rawson, Boileau, Lanteaume etc; Adey con Winslow & Quirk, Queen, Bruce, Christie, Anthony, Crispin, Rogers, Sladek etc. 
Per quanto le loro opinioni possano essere cambiate negli ultimi tempi, saltano all'occhio due elementi: il primo è il fatto che Lacourbe predilige opere francesi – ma cita anche Rawson – mentre Adey non accenna ad alcuna opera scritta nella lingua di Leroux. Il punto numero due verte invece sul fatto che dei 10 autori citati da Lacourbe e dei 15 di Adey, ce n'è solo uno in comune: Hake Talbot. Ma Lacourbe preferisce – come buona parte della critica europea – The Hangman's Handyman (1942), mentre Adey cita Rim of the Pit (1944). 
La differenza di vedute tra i due esplica da una parte l'immensità di materiale letterario sul genere, ma dall'altra anche l'evidente spaccatura che esiste tra i critici anglosassoni e quelli europei – per lo più francesi. Ognuno tira acqua al proprio mulino, e come vedremo nelle analisi dei testi critici successivi, spesso si eccede nelle valutazioni.

Nel complesso questo 99 Chambres Closes è quindi un'opera eccellente e non solamente perché una delle prime: rappresenta un volume perfetto per un neofita e offre una panoramica vasta e precisa dei tanti autori – alcuni validi, altri meno – che si sono cimentati con il genere.