Nei dintorni della desolata Arrojo, un paesino della Virginia occidentale, il giorno di Natale, viene ritrovato il cadavere di Andrew Van, eccentrico maestro di scuola, decapitato e crocefisso a un cartello stradale, in modo da formare una enorme T.
Ellery Queen assiste al processo, ma l'intera storia appare del tutto assurda e incoerente, perciò è costretto a tornarsene mestamente a casa, senza aver risolto nulla.
Circa sei mesi dopo, un suo ex docente, il professor Yardley, che ora vive a Long Island, lo invita a recarsi da lui: il cadavere di Thomas Brad, imprenditore e milionario del posto, è stato ritrovato decapitato e crocefisso a un Totem Indiano.
Cosa lega due omicidi così efferati, avvenuti a centinaia di chilometri di distanza? Forse il nome di un pazzo assassino in cerca di vendetta: Velja Krosac. L'incubo, per Ellery, inizia da qui.
Al quinto romanzo a firma Ellery Queen (escludiamo, per semplicità, la tetralogia Barnaby Ross), Dannay e Lee sembrano dare una repentina quanto decisiva sferzata al modo di concepire il mystery. Se i primi tre romanzi rappresentano sostanzialmente un apprendistato ancora vandiniano, e con The Greek Coffin Mystery (L'affare Khalkis, 1932) il concetto di "enigma deduttivo formale" viene portato a conseguenze di virtuosismo tecnico sino ad allora inimmaginabili, è con questo The Egyptian Cross Mystery che Dannay e Lee si apprestano definitivamente ad uscire dalle sfavillanti maniere di Van Dine. Quello che i due autori aggiungono, da subito, è una maggiore freschezza letteraria, rinunciando a uno stile più magniloquente ed elaborato per uno più sciolto e gradevole, ma anche una migliore tenuta tecnica degli intrecci, una maggiore capacità di evocare atmosfere e costruire personaggi, oltre a un rigore logico più solido, meno legato alla componente psicologica.
Questo romanzo è però un unicum nel fortunato Primo Periodo Queeniano, ma pone le basi per un cambiamento che sarà tale solo dal 1936-1937.
Ellery è per la prima volta solo, lontano da New York, dal padre Richard, da Djuna e dai suoi cari. C'è il suo vecchio amico docente, un professore dotato di raziocinio e capacità deduttive, con il quale spesso si confronta, ma non è il solito Ellery: si sente mentalmente solo, impotente di fronte allo scempio e alla profanazione priva di senso del corpo umano, chiuso in se stesso evita le solite citazioni colte o le digressioni erudite, ripete spesso di sentirsi inerme, incapace di trovare un raggio di luce in questo enigma sconvolgente. Se quest'opera è così impregnata di sangue e morte, spiega acutamente Francis Nevins, è perché questo orrore fisico serve ad illustrare le analogie tra la vendetta Tvar-Krosac e l'equivalente nel macrocosmo, la Guerra. Anche per questo, forse, il macabro non si unisce mai al soprannaturale.
Gli elementi alla base del movente dell'assassino (così vaghi, così banalmente raccapriccianti), sono i resti abortiti di quello che poteva diventare un romanzo di denuncia della Guerra [1]. Non c'è qui la Guerra, ma la sua conseguenza più immediata, la morte, regna incontrastata.
Le atmosfere crepuscolari si respirano quasi con il fiato corto: Queen inizia a studiare le diverse reazioni, di fronte al Male più incomprensibile, di due comunità completamente differenti tra loro, come farà, con ancora maggiore piglio, in Cat of Many Tails (Il gatto dalle molte code, 1949). L'interessante ritratto d'ambiente è un punto di partenza fondamentale per la futura creazione della città di Wrightsville, microcosmo preciso e impietoso della omertosa civiltà americana, al centro di molti romanzi successivi.
Ciò che colpisce di più, di The Egyptian Cross Mystery, è questo allontanamento graduale ma implacabile dallo schema del Whodunit: di facciata, va notata certamente la presa di posizione sin dall'introduzione, in cui Dannay e Lee prendono le distanze dal frequentatissimo tema egittologico nel poliziesco (da Freeman a Van Dine), ma in profondità si respira un'aria opprimente, acuita da atmosfere di morte e pazzia quasi surrealistiche, che richiamano certe dolenti immagini di Bosch.
La gestione della tensione narrativa è esemplare: a tratti esasperante, si allenta per poi ripercuotersi vertiginosamente, sino ad una palpitante caccia all'uomo finale.
Questo non potrà mai essere un semplice Whodunit: le deduzioni logiche di Ellery sono poche, gli indizi non abbondano, i sospettati sono oggettivamente in numero ridotto, ma è evidente come tutto questo agli autori interessi meno del solito. Sembra paradossale, ma da un punto di vista prettamente tecnico, ci sono più imperfezioni di logica qui, in cui la trama ha maggiore linearità, rispetto ad un romanzo come quello precedente, in cui tenere le fila diventava più difficile di guidare un'astronave.
Certo il movente balla pericolosamente tra il cervellotico e il geniale, ma il vero punto debole è quello che Nevins chiama Centro Vacuo: questo avviene quando una parte dei maneggi e degli intrighi che occupano i capitoli intermedi, risultano troppo marginalmente collegati alla trama centrale, e quando si susseguono una quantità di false piste che sono troppo semplici da individuare come tali. Questi difetti, qui mascherati dal ritmo e dall'atmosfera, sono ancora più netti nel successivo The Chinese Orange Mystery (Il delitto alla rovescia, 1934), altro controverso romanzo del Primo Periodo.
Ma la sensazione di pathos ed emozione che ci spinge a girare furiosamente le pagine, deriva anche (è ovvio, se parliamo di Ellery Queen) da un'enigma straordinario, in cui gli indizi si accavallano intensamente (la partita a dama di Thomas Brad), sino all'ultimo, nel capitolo che precede la Sfida al Lettore, semplicemente uno dei più diabolici mai escogitati nell'intera storia del mystery.
La soluzione, partendo dal fatto di essere mentalmente negli anni Trenta, è un esempio perfetto, ma onesto, di mistificazione: è come se ci accorgessimo di aver indossato una maschera, o di aver guardato continuamente dalla parte sbagliata. Questa sarà una lezione per la penna di molti, da quella di Thomas Harris a quella martellante del geniale J. T. Rogers, in The Red Right Hand (La rossa mano destra, 1946). Se lì c'è il terribile Cavaturaccioli, qui c'è Velja Krosac, il quale non può non ricordare, per assonanza, provenienza e facilità di esecuzione, Keyser Soze, il genio criminale al centro del folgorante esordio registico di Bryan Singer, The Usual Suspects (I soliti sospetti, 1995).
Un romanzo da leggere e rileggere, nelle sue imperfezioni e nei suoi straripanti strappi di tensione, con grande inquietudine, solo ed esclusivamente nella traduzione di Gianni Montanari.
Il resto, è da buttare.
1 F. Nevins, Royal Bloodline, 1974, trad. it. Gianni Montanari in Agenzia Investigativa Ellery Queen, 1984, p. 10
1 F. Nevins, Royal Bloodline, 1974, trad. it. Gianni Montanari in Agenzia Investigativa Ellery Queen, 1984, p. 10